#blackAF: gli afroamericani milionari nella serie TV di Netflix
Chi sono i nuovi ricchi afroamericani? La serie #blackAF ci regala un esilarante ritratto di coloro che devono spendere ogni centesimo dei loro soldi prima di morire. #blackAF è una produzione originale Netflix, ideata da Kenya Barris.
#blackAF è una serie statunitense disponibile in streaming su Netflix Italia: è una sit-com/mockumentary semi-biografica, ideata, scritta e interpretata da Kenya Barris, l’uomo nero da 100 milioni di dollari per Netflix.
Mentre l’America celebra la sua Indipendenza con i fuochi di artificio patriottici del 4 Luglio (Independence Day) e le decorazioni a stelle e strisce nei front yard, BlackAF vi racconta dell’indipendenza dei neri ricchi d’America.
Non i neri di cui avete sentito parlare negli ultimi mesi, dopo la morte di George Floyd; nemmeno quelli che scendono per le strade di tutto il mondo a manifestare sotto il motto #BlackLivesMatter.
No: quelli di #blackAF sono i ricchi afroamericani che rincorrono un nuovo status socio-politico nelle loro tute di Valentino da duemila dollari, mentre fingono di lasciarsi alle spalle la loro cultura.
Cos’è #blackAF?
#blackAF è a metà tra un mockumentary e una sitcom: ovvero, una sitcom americana raccontata come se fosse un documentario. Un finto doc sulla finta famiglia di Kenya Barris ispirata però a quella vera. Cinque figli (nella vita reale Barris ne ha sei) e una moglie mista, come quella vera, interpretata da una spumeggiante Rashida Jones (che abbiamo già visto in The Social Network).
Il teatrino messo in piedi da Kenya Barris è molto divertente. Figli fuori controllo, bugiardi compulsivi e privi di codice etico, abituati alla ricchezza. Una moglie avvocato, che non lavora da anni, e si sente nera anche se le viene sempre ricordato che è mezza bianca e mezza nera.
Per chi non lo sapesse, AF sta per “as fuck”. Enfatizzazione del nero, che diventa fottutamente nero.
#blackAF racconta dei neri nuovi ricchi. Quelli che ce l’hanno fatta, che sono l’orgoglio di tutti i neri. Perché quando ce la fa uno, è un po’ come se ce l’avessero fatta tutti.
“ce l’hanno fatta” a fare cosa?
Ce l’hanno fatta ad emergere in un ecosistema manipolato dai bianchi. Hanno trovato il loro posto in una industria, quella dei media, dove per lungo tempo non c’è stato spazio per i neri. Si sono fatti spazio in una Hollywood dove alla Mami (Hatty McDaniel) di Via col Vento veniva impedito di entrare nel Kodak Theatre per ritirare il primo Oscar vinto da una donna afroamericana. Oggi il film viene “cancellato” a causa del suo ritratto (storico), proprio da quelle aziende che fino a qualche hanno fa avevano un management tutto bianco e raccontavano storie per un pubblico ancora più sbiadito.
Chi è Kenya Barris?
Kenya Barris, su Twitter @funnyblackdude, li rappresenta tutti, quei neri che ce l’hanno fatta. Li racconta dalla sua bella casa da neri a Los Angeles. Anche se capiamo subito che nemmeno lui sappia bene quale sia la differenza tra una casa da neri ricchi e una casa da bianchi ricchi, siamo certi che il suo mondo sia tutto in bianco e nero.
“Everything he is ever done is black stuff, with black things, about black people”.
Tutto quello che ha fatto è roba da neri, con cose da neri e sui neri- ci confessa subito la figlia (finta) all’incipit della serie #blackAF.
L’attore, produttore e sceneggiatore americano nella serie interpreta sé stesso. Nella vita reale Barris ha firmato un accordo da 100 milioni di dollari con Netflix nel 2018. Rubato dal gigante streaming internazionale al network americano ABC (l’American Broadcasting Company controllata da The Walt Disney Company), a quanto pare in seguito a tensioni sorte dalle critiche al Presidente Donald Trump inserite in un episodio della sua serie black-ish.
La serie black-ish è stata un enorme successo per il network ABC, tanto da portare alla produzione del suo prequel mixed-ish e del suo sequel grown-ish. La mitologica famiglia nera nel quartiere bianco, viene analizzata in tutte le sue forme in diverse decadi.
The White Gaze, lo sguardo bianco
Lo sguardo bianco: “Il modo di merda in cui ci ci guardano i bianchi, che ci giudicano qualunque cosa facciamo”.
Tutta questa merda è vera, ci dice Barris in #blackAF. Perché in America un nero con una macchina qualunque, è un nero al verde; un nero su un’auto di lusso, è una scimmia che rappa (rappare v. tr.).
The white gaze: lo sguardo di quell’uomo bianco che a più mandate Barris dichiara di odiare.
“Odio i bianchi”, dice lui.
Il razzismo, una garanzia (cit. Kenya Barris)
È questo il vero paradosso del razzismo in America. I neri sono autorizzati a dichiarare (ironicamente) il loro odio per i bianchi, mentre i bianchi non sono autorizzati a dichiarare il loro odio per i neri nemmeno ironicamente. Gli Ebrei non sono autorizzati a dichiarare il loro odio né per i neri, né per i bianchi, mentre i neri possono dire che gli Ebrei non gli sono proprio simpatici.
In tutto questo gli afroamericani hanno il dovere morale di supportare gli afroamericani, gli Ebrei si supportano tra di loro già da tempo e i bianchi se non supportano sia neri che Ebrei sono dei sudisti schiavisti.
E i latinoamericani? Questo lo dobbiamo ancora capire.
L’armadio di Kenya Barris
Come ci dice la moglie (finta), il suo armadio è una tuta gigante. Oggi il nero ricco veste athleisure e lo shopping è una cosa seria. Ma un nero non si sveglia una mattina in una tuta Valentino. Un nero la tuta griffata se l’è sudata.
Kenya Barris in #blackAF è l’uomo di colore che odia i suoi soldi, o quello che rappresentano, e deve assicurarsi di spenderli tutti prima di morire.
Come ci racconta Barris, dopo 400 anni di lavori forzati, posta la fine della schiavitù, i neri erano dei poveri analfabeti liberi di convivere con le stesse persone che li avevano oppressi. Dovevano cavarsela, farsi accettare. E allora venivano trattati con un minimo di decenza solo quando vestivano gli abiti della domenica per essere sfoggiati in chiesa dai bravi cristiani bianchi. Secondo l’autore di #blackAF, è questo che ha portato i neri a credere che vestendosi bene sarebbero stati accettati.
La schiavitù gli ha scolpito la vanità nel DNA.
La collana d’oro
La collana d’oro sfoggiata da Kenya è il fil rouge di tutta la serie. Tanto criticata dai suoi figli, quanto ammirata dai suoi parenti neri e stereotipata dai suoi amici bianchi. Kenya se ne vuole disfare, la nasconde sotto la t-shirt griffata, ad un certo punto l’ha quasi venduta, ma poi la ritira fuori per sfoggiarla. Perché è proprio la sua collana d’oro a dirci che Kenya è uno che ce l’ha fatta.
Ah, dimenticavo, bella collana Kenya!
Gli episodi
I titoli degli episodi sono degni di nota e ci fanno sorridere.
A causa della schiavitù
Anche per via della schiavitù
Ancora a causa della schiavitù
Si, esatto. Proprio a causa della schiavitù
Detto tra noi…è a causa della schiavitù
Incredibile, ma vero, è ancora a causa della schiavitù
Sembrerà assurdo, ma anche questo è a causa della schiavitù
Può sembrare strano, ma il motivo per cui ci meritiamo una vacanza è la schiavitù
Una capacità di autoironia non poco banale da parte di un nero sui neri che fanno risalire alla schiavitù l’origine di tutti i loro malanni, delle loro fobie e delle loro passioni.
La critica
La serie #blackAF è stata criticata per essere più una ripetizione di black-ish che un passo avanti per il creatore Kenya Barris. Addirittura definita fottutamente noiosa (boring AF), tanto quanto fottutamente nera.
Sicuramente quella della famiglia ricca afroamericana, che cerca di sottolineare la sua identità pur acquisendo un nuovo status sociale, è una formula già sperimentata dall’autore come garanzia di successo. Questo non fa essere la serie meno interessante quanto distante da un classico ritratto stereotipato degli afroamericani.
La critica alla critica
Nel quinto episodio della serie Barris lancia la bomba della critica all’arte afroamericana.
Da un lato i critici bianchi che per paura di essere catalogati come razzisti, non osano fare critiche negative ai film dei neri. Da un’altro lato i neri che non si sentono liberi di criticare le opere dei loro fratelli neri. E la critica diventa impura e poco sincera. Ma Kenya viene criticato, eccome!
E il qualunquismo della critica
Con lo stesso qualunquismo con cui in America si fa di tutte le minoranze un fascio, la serie è stata anche paragonata al cult Curb Your Enthusiasm di Larry David. Come se tutto ciò che parla con la voce delle minoranze etniche possa essere inserito in un unico calderone del non bianco.
Sicuramente entrambe affrontano il tema delle minoranze con un racconto cinico e apparentemente leggero. E siamo certi che l’ironia di Larry David possa essere stata di inspirazione per uno sceneggiatore/attore/produttore che fa dell’umorismo etnico un tratto distintivo, cercando di non cadere né nel banale, né nell’offensivo. Ma è proprio il paradosso del come si può parlare di razzismo in America a seconda del colore della pelle e della religione di chi parla, che fa essere il racconto molto diverso.
E quindi gli Ebrei?
Il fatto che gli Ebrei siano bianchi o non bianchi resta un dubbio anche per Kenya Barris e il suo assistente Ebreo (Gil Ozeri). Sembra una punizione da contrappasso per gli Ebrei che hanno per anni dominato – e ancora dominano – l’industria dell’audiovisivo americana e ora si trovano a fare gli assistenti sottopagati dell’uomo di successo afroamericano, di cui ammirano la sfarzosità hip-hop.
Seconda stagione
Nonostante le critiche discordanti, la serie #blackAF, uscita ad Aprile 2020, è stata appena rinnovata da Netflix per una seconda stagione. Forse dopo gli eventi di Minneapolis dello scorso 25 Maggio 2020 e la presa di coscienza pubblica sulla police brutality, il nostro amico Kenya ha qualcosa in più da raccontare sul punto di vista afroamericano.
Proprio negli ultimi giorni Barris ha dichiarato ad NBC News di voler essere partecipe nella politica il più possibile. Gli Stati Uniti hanno già avuto un presidente nero. Al di là del colore, la politica non è stata tanto diversa dai suoi corrispettivi sbiaditi. Quindi speriamo che Kenya continui a fare il suo lavoro e ci regali una nuova stagione di questa serie per farci conoscere questo mondo bianco e nero che poco ancora capiamo.
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Candidati per provare a entrare nel nostro Global Team scrivendo a direzione@taxidrivers.it Oggetto: Candidatura Taxi drivers
Anno: 2020
Durata: 8x36'
Distribuzione: Netflix
Genere: Mockumentary
Nazionalita: Stati Uniti
Regia: Ken Kwapis, Kenya Barris, Brennan Shroff, Rashida Jones