Nel silenzio polveroso delle colline del Texas, Ransom Canyon prova a infilarsi nello spazio vuoto lasciato dal western classico. La serie firmata Netflix, uscita il 17 aprile con i suoi 10 episodi, conquista subito il secondo posto nella classifica globale con 7,2 milioni di visualizzazioni e 56,6 milioni di ore di visione. Ma sotto l’apparenza del western contemporaneo si nasconde qualcosa di più fragile e malinconico. Una riflessione sull’abbandono, sulla perdita e sull’impossibilità del vero riscatto.
La geografia dell’abbandono
In Ransom Canyon si mette in scena una geografia dell’abbandono. In questa provincia dimenticata, la vita non è mai pienamente vissuta. È trattenuta, interrotta, amputata; dove ogni gesto quotidiano è contaminato da ciò che manca. Ransom Canyon non è solo il Texas da cartolina, ma quello polveroso che rimane negli scarponi. Il paesaggio è la proiezione esterna di un mondo interno frantumato. Non ci sono catarsi, né risarcimenti narrativi. Il canyon che dà nome alla serie diventa così metafora visiva e simbolica di ogni distanza che abita i personaggi. Una distanza, o frattura, geografica ed emotiva.
In questo contesto il paesaggio si eleva ben oltre la mera scenografia, diventando un protagonista silente, ma onnipresente. Le ampie vedute dei ranch che si perdono all’orizzonte rappresentano narrativamente libertà e solitudine. Mentre, le antiche dimore e le strade polverose delle cittadine raccontano storie di generazioni passate, oltre che un senso di appartenenza radicato nei personaggi. La regia predilige movimenti lenti, campi lunghi, una costruzione dell’inquadratura che lascia spazio al vuoto, come se la telecamera fosse sempre un passo indietro rispetto all’azione, rispettando la fatica, l’attesa e l’incertezza che abitano i personaggi.

Riscatto e resistenza
In un mondo dove la continuità si è spezzata, nessuno è più forte di ciò che ha perso. Ognuno cerca qualcosa: redenzione, amore, vendetta, verità. È un teatro esistenziale mascherato da western sentimentale. Il termine stesso della cittadina “Ransom” significa ‘riscatto’. È allora dal titolo che parte la tensione che attraversa tutta la narrazione. Un riscatto che, tuttavia, rimane illusorio, e spesso pesante. In Ransom Canyon il riscatto non si ottiene attraverso grandi gesti eroici. Non c’è redenzione nell’azione, nel coraggio, nella forza, come accadeva nel western classico. Il western sentimentale della serie Netflix racconta una resistenza, un duro lavoro del quotidiano.
Lo storytelling è figlio di Friday Night Lights (2006-2011, Peter Berg), in cui la stessa Minka Kelly ha recitato. Attraverso il football si racconta di una piccola città texana, ma il vero centro emotivo sono le vite spezzate, le speranze minute e le lotte invisibili. Come quest’ultima, Ransom Canyon costruisce la sua forza sul piccolo, sul quotidiano: Texas rurale, famiglie fragili e una comunità come trappola e rifugio. Se Friday Night Lights ha il football come metafora di una battaglia personale e collettiva, Ransom Canyon sostituisce il campo da gioco con i ranch.
Il tempo, nella serie, è circolare. Esso è intriso di un senso di inevitabilità: i ritorni, gli addii e gli errori si ripetono come le stagioni. La stessa ciclicità è riflessa nei personaggi, che sembrano condannati a ripetere gli stessi schemi di comportamento. Ogni ritorno inizia come una resa dei conti con ciò che è già accaduto.
Ransom Canyon: un western senza eroi

Non siamo nel Texas eroico dei western classici. Non c’è qui la narrazione della conquista, della vittoria sulla natura, della forza virile che piega il mondo al proprio volere e nessuna frontiera da superare. Il lutto diventa il soggetto stesso della narrazione, dell’esistenza dei personaggi. Gli stessi non piangono un evento specifico, ma la perdita di un’idea, una fiducia, un sogno. La perdita non è un’eccezione: è la regola. La serie, in fondo, è una lunga elegia per il sogno americano e il suo disincanto. Nel Western classico, la frontiera rappresenta una promessa: una possibilità, un futuro da costruire attraverso il coraggio e l’azione. L’eroe, solitario ma integro, combatteva per difendere una comunità e ristabilire un ordine riscattando se stesso e gli altri. La violenza qui ha uno scopo, una funzione.
In Ransom Canyon tutto ciò è capovolto. La frontiera non è più uno spazio di apertura, ma una barriera. Il canyon resta un vuoto incolmabile. La violenza non porta alcun ordine, non rigenera nulla, è sterile. Non ci sono veri eroi, e la redenzione diventa un miraggio. Questi sono elementi che avvicinano Ransom Canyon a Il Mucchio Selvaggio (1969) di Sam Peckinpah. Se in quest’ultimo si racconta di cowboys violenti e disperati incapaci di trovare il loro posto nel nuovo West, Ransom Canyon mostra una versione più dolente e intimista della stessa condanna: uomini e donne legati a una terra che non li riconosce più, incapaci di abbandonarla ma anche di salvarla.
La frontiera
Come abbiamo appurato, Ransom Canyon, più che un semplice racconto di ranch e amori texani, si rivela una topografia complessa del desiderio e del suo inevitabile scontrarsi con i confini. La frontiera, in questa narrazione, non è tanto una linea netta su una mappa quanto una zona liminale. Prendiamo il personaggio Lauren Brigman (Lizzy Greene). Il suo anelito verso Austin non è un mero desiderio di cambiamento geografico, ma la pulsione a varcare la frontiera soffocante familiare, oltre alle aspettative comunitarie che la inchioderebbero a un destino già scritto. Austin diviene l’Altro radicale, lo spazio promesso di una soggettivazione finalmente autonoma, un tentativo di sottrarsi al significante ingombrante della “terra dei padri”.
Al polo opposto troviamo Staten Kirkland (Josh Duhamel). La sua ostinata resistenza alla vendita della terra non è semplice attaccamento alla proprietà. Essa incarna la difesa di un confine identitario minacciato. Cedere la terra significherebbe per Staten varcare una frontiera pericolosa, quella della perdita di un pezzo essenziale del proprio essere, un’amputazione simbolica che lo priverebbe della sua stessa sostanza. La sua è una lotta per mantenere intatta una frontiera tra sé e il caos del di-sradicamento.
‘Ransom Canyon’ come ritorno di ‘Yellowstone’?

‘Yellowstone’

‘Ransom Canyon’
Il paragone tra Ransom Canyon e Yellowstone (2018-2024) è stato inevitabile. Entrambe le serie si muovono tra ranch, dispute territoriali, famiglie lacerate da conflitti e scenari rurali di un’America che sembra appartenere più al passato. Come ha scritto il sito Decider:
“Ransom Canyon mescola il romanticismo e il fascino delle piccole città di Virgin River con le intense dispute familiari e territoriali di Yellowstone”
Eppure, la somiglianza si ferma alla superficie. Ransom Canyon non è Yellowstone, e nemmeno vuole esserlo. Se Yellowstone racconta l’agonia di un mondo attraverso il linguaggio della violenza e della lotta per il potere, Ransom Canyon sceglie una tonalità più intima, più sentimentale. La serie Netflix si presenta come il lato sommerso di Yellowstone: dove la serie di Taylor Sheridan esalta la lotta di potere per la terra, Ransom Canyon racconta invece la rassegnazione silenziosa di chi quella terra la ama e la perde, senza battaglie spettacolari, senza gloria.
Fratture stilistiche
Non è una serie perfetta. A volte si perde in cliché, altre inciampa in dialoghi eccessivamente didascalici che spezzano l’autenticità. Alcuni personaggi parlano spesso per temi invece che per verità. Altri sono fin troppo stereotipati, oppure non sono trattati con la profondità che la serie richiederebbe. Sicuramente il cast di Ransom Canyon è una colonna portante della serie. Eppure c’è una certa malinconia che la serie Netflix sa distillare bene, forse è proprio per questo che funziona. Ha inoltre un potenziale di attrazione intergenerazionale. Il western, il romanticismo, il dramma e la rappresentazione di un’America rurale portano la serie ad avere gli elementi necessari per piacere a un gruppo più ampio di persone. È forse questa la sua forza?
Editing Giulia Radice.