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L’emergenza Coronavirus rievoca le atmosfere dei film di Romero. Ma è anche un’opportunità

Una tragedia che a lungo porteremo nella memoria. Ma anche un'occasione per migliorarci e ritrovare un nuovo rapporto con noi stessi, gli altri, il nostro tempo, i nostri affetti e persino il nostro pianeta

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Camera delle bestemmie, piena apocalisse Covid-19, colonna sonora: It’s The End Of The World As We Know It (And I Feel Fine)  dei REM.

Qualche giorno fa me ne stavo chiuso nella mia libreria lavorando tra vecchi tomi centenari e preparando, nei ritagli di tempo e con il consueto ritardo, una recensione del documentario Fake for Fulci, che ho visionato qualche settimana fa per Taxi Drivers. Completamente all’oscuro o quasi del pandemonio che si dipanava fuori dalle mura del mio negozio a causa del Coronavirus, alias Covid-19. Vuoi perché, ahimè, nell’Italia del 2020, all’ultimo posto in Europa per propensione alla lettura e livello culturale dei suoi abitanti, le librerie non sono solitamente dei posti affollati, vuoi anche per il mio carattere solitario e le mie abitudini da eremita. Quando a riportarmi bruscamente agli eventi secolari ci pensa una mail del grande capo che mi chiede un breve articolo “di opinione” sulla recente pandemia che ci coinvolge tutti. Titubo qualche giorno prima di rispondere.

Di norma, io sono abbastanza veloce a dispensare adesioni e dinieghi, ma stavolta devo ammettere che la richiesta mi ha veramente spiazzato. Se c’è una categoria di giornalisti che odio profondamente sono proprio gli opinionisti, gente che, senza nessun titolo, a parte il cattivo gusto, si sente in dovere di pontificare su ogni cosa, veicolando luoghi comuni, pregiudizi e disinformazione. Oltretutto, nello specifico, per quanto ami ostentare la mia sopravvalutata istruzione, il mio titolo di dottore si limita alle discipline umanistiche, con specializzazione in storia e critica del cinema, e non fa di me né un medico, né tanto meno un virologo. Ma la cosa che più mi lasciava perplesso era il quesito sul perché una testata come Taxi Drivers dovesse in qualche modo dire la sua su una situazione tanto drammatica che ci tocca tutti da vicino e che muterà le nostre vite in maniera radicale per sempre, ben oltre la durata dell’epidemia. Ma il cinema è lo specchio dei nostri giorni, per dirla come Alan Moore: “l’arte di raccontare la verità attraverso raffinate bugie”. Metafore elaborate dal filtro della celluloide in immagini fantastiche e paradossali che pur sempre parlano di noi esseri umani e della nostra incredibile saga su questo pianeta attraverso le nostre opere e i nostri sogni.

Per di più la mia naturale inclinazione ai film di zombi mi rende forse più preparato di altri a raccontare il crollo della società, o forse solo di una società per come noi la conosciamo. In fondo, sono anni che mi preparo all’apocalisse zombi accumulando scatolette, cibi liofilizzati e riproduzioni di armi antiche. Quindi, per quanto ancora non ci siano cadaveri antropofagi in giro per le strade da abbattere con un colpo in testa, forse posso confessare a denti stretti che una situazione del genere mi sembra meno aliena di tante altre. Certamente, riesco a capirla molto meglio di una finale di Champions League e mi ci raccapezzo meglio che non ad un’apericena al centro di Roma il Sabato sera. Non voglio dire che mi piaccia, ma probabilmente per come andavano le cose magari me l’aspettavo più di molti altri.

Nel momento in cui scrivo, cerco un’immagine nella storia del cinema che più di altre rappresenti il momento presente. Fissa, ripetuta a loop, mi si presenta continuamente la scena di Zombi di George A. Romero con i protagonisti chiusi nel centro commerciale assediato dalla massa proletaria e informe dei non-morti che si chiedono cosa spinga quei corpi a entrare in quel tempio del consumo, ben oltre il limite della loro vita cosciente. Ricordate le parole di Ken Foree? “Vogliono questo posto, non sanno nemmeno perché ma vogliono tornarci! Era un luogo importante per loro… quando erano vivi”.

Certo, potrei anche richiamare la sequenza del Nosferatu con i docks di Wismar chiusi dalla pestilenza, weberiana parafrasi della punitiva fine del commercio privo di etica. Ma qui andremmo a rovistare nei massimi sistemi. Verrà tempo e luogo affinché ciascuno di noi possa fare le sue analisi e trarre le conclusioni circa il modello di sviluppo che abbiamo dogmaticamente perseguito negli ultimi trent’anni. Quello su cui mi preme soffermarmi in questo momento è più immediato e riscontrabile nei comportamenti di ciascuno di noi. Siamo stati costretti a fermarci, a rallentare i nostri ritmi, pena la nostra stessa sopravvivenza. Noi, gli zombi, siamo tagliati fuori dal grande centro commerciale in cui a tutti i costi volevamo entrare senza nemmeno sapere perché. Siamo sicuri che questo sia un male?

Negli ultimi tre decenni siamo stati educati a correre sempre più veloci, isolandoci in una competizione spaventosamente individualistica, della quale, in fondo, non conosciamo né le ragioni, né il premio. All’inizio di tutto ho visto gente sfidare il Coronavirus ponendo in grave rischio la salute propria e collettiva, per i motivi più disparati. Per comprare una Playstation nuova, per andare a sciare, per crogiolarsi nella movida del fine settimana. Fino a che i morti non si sono fatti terribilmente vicini abbiamo continuato a dare la priorità a cose che di prioritario hanno ben poco, anche in situazioni normali. Ci sono volute le immagini degli ospedali al collasso e l’incessante sfilata di bare per capire tutti insieme quanto le cose che ci hanno educato ad idolatrare, a considerare indispensabili, fossero alla conta dei fatti un gran cumulo di sciocchezze. Sono crollate le nostre supponenze persino sui rapporti sociali basati sulla convenienza, quando Paesi o popoli che abbiamo sempre considerato i cattivi del mondo, come Cina, Cuba e Venezuela, si sono mossi in nostro soccorso, mentre altri che ritenevamo più affini non hanno avuto un attimo di esitazione a girarci le spalle.

Mi si è chiesto di scrivere un’opinione su questo momento che stiamo vivendo. Una tragedia che a lungo porteremo nella memoria. Ma anche un’occasione per migliorarci e ritrovare un nuovo rapporto con noi stessi, gli altri, il nostro tempo, i nostri affetti e persino il nostro pianeta. Una febbre di crescita dalla quale potremo uscire migliorati. E guardando le immagini satellitari del nostro bellissimo mondo, che con il rallentamento delle attività guarisce rapidamente dalle piaghe dell’inquinamento, una volta tanto mi sento ottimista.

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