Il terremoto di Vanja: conversazione con Vinicio Marchioni
In concorso al 21/mo Sudestival, Il terremoto di Vanja, diretto da Vinicio Marchioni, è il racconto di un viaggio sentimentale e geografico in cui la Russia dei capolavori di Anton Checov e l'Italia del post terremoto riecheggiano all'unisono nell'allestimento dell'opera teatrale che dà il titolo al film. Ne abbiamo parlato con il regista
Il terremoto di Vanja è il racconto di più viaggi: quello fisico e geografico, che ti ha spinto fino in Russia per visitare i luoghi in cui Cechov è nato e vissuto e, ancora, le zone del centro Italia colpite dal terremoto. Ma anche quello intimo e personale relativo alla passione per il tuo lavoro e per le opere del grande scrittore.
Si, le intenzioni erano quelle, sia durante le prove dello spettacolo, sia durante le riprese, quando ci spostavamo per filmare alcune delle sequenze de Il terremoto di Vanja. Diciamo che l’allestimento della pièce di Zio Vanja fa da trait d’union a questi molteplici percorsi, nel senso che attraverso la creazione dello spettacolo teatrale si parla di viaggi che accompagnano lo spettatore alla scoperta di un autore, Anton Cechov, che ho studiato per cinque anni e che mi ha cambiato la vita. La sua conoscenza mi ha fornito strumenti umani e artistici che prima non avevo. A spostarsi è stato anche il mio punto di vista verso il mondo e su come avvicinami a esso. Parliamo di un autore che nell’immaginario collettivo è considerato, per così dire, da cultura molto alta, intellettuale, non per tutti, mentre il mio è stato un incontro umano prima che artistico e intellettuale. Il viaggio nei suoi luoghi natali è stato anche un modo per farlo conoscere a più persone possibili e per dare la possibilità di innamorarsi di uno scrittore la cui lettura è in grado di cambiare la vita della gente. Nel film c’è poi il viaggio dentro questo terremoto, perché nell’adattamento teatrale abbiamo spostato l’ambientazione dalla Russia di Anton Cechov all’Italia sopravvissuta a tale emergenza; questo perché le macerie raccontate dallo scrittore a proposito dell’essere umano a me facevano pensare a quelle del nostro paese. Mi sembrava una giusta metafora non solo per tutte le persone che della calamità in questione hanno subito i danni ma, in generale, della condizione di un’Italia che fatica a guardare nuovamente a un futuro e che preferisce compiangersi, pensando ai tempi in cui funzionava tutto. Una nostalgia che è la stessa in cui vivono i personaggi di Cechov.
Rispetto a ciò che hai detto, mi pare esemplare l’apertura del film, con le immagini di repertorio che si soffermano sul crollo di una scuola e poi sul suo mancato ripristino, come a dire che la morte di un popolo e la fine di una civiltà passa anche attraverso la scomparsa delle idee e di una cultura incapace di rinnovare il proprio pensiero. Anche in questo caso la rappresentazione che fai si presta a una duplice lettura, cronachista e metaforica.
Si. Quando siamo andati nei vari paesi, da L’Aquila fino a Poggio Picenze e poi nella Marche, dove abbiamo intervistato la famiglia che abbiamo sovrapposto a quella di Zio Vanja, abbiamo scoperto una costruzione gigantesca donata dalla Germania subito dopo il terremoto de L’Aquila del valore di 4, 5 milioni di euro, che però non è stata mai aperta. Sull’insegna di questa struttura c’era scritto Centro della cultura. Vedere tutti questi soldi mai utilizzati convivere con le macerie di quelle terre è stata un’immagine fortissima. In questo senso, ho cercato di riflettere l’amarezza di stare in una nazione che ha prodotto e conserva il settanta per cento della cultura mondiale senza riuscire a tradurlo in una ricchezza non solo materiale ma anche etica. Si tratta di un patrimonio che potrebbe permettere a ogni italiano di crescere intellettualmente e di essere orgogliosissimo della sua identità. In Italia non siamo mai riusciti a farlo.
Nel film la sovrapposizione tra passato e presente, tra la Russia di Cechov e la realtà contemporanea, offre allo spettatore la riscoperta del punto di visto politico dello scrittore. Ragionando sull’umanità dei personaggi egliriporta l’arte in mezzo alla gente alla maniera invocata da Vladímir Majakóvskij, che invitata i compagni di partito a fare politica per le strade e non chiusi nelle stanze del potere. Il tuo film, attraverso gli argomenti trattati, svolge la stessa funzione.
Guarda, in fondo penso che questo sia il compito di qualsiasi forma d’arte, nel senso che se essa non è comprensibile secondo me non si può definire tale. O ti colpisce oppure no. O ti dà gli strumenti per crescere e andare in qualche direzione o, altrimenti, non può essere considerata tale. In questo Cechov è stato il più grande, laddove è stato l’autore e il drammaturgo che più di tutti ha scritto delle mancanze degli esseri umani, delle loro difficoltà e delusioni, rappresentandole sempre con un senso di compassione e con amore verso le persone. Mai per esprimere un giudizio. Da questo punto di vista, il suo essere artista e intellettuale è un balsamo per chi lo frequenta.
A proposito di ciò che dici, una degli aspetti che il film mette in evidenza è il processo della creazione artistica, dall’idea iniziale alla sua realizzazione, che poi corrisponde alla prima teatrale del “tuo” Zio Vanja. Sotto questo aspetto, mi sembra che il film si soffermi sul mestiere dell’attore confrontandosi con Cechov, il quale parlava della necessità di partecipare intimamente alla messa in scena dei personaggi al fine di poterli riproporre così come essi sono scritti sultesto scritto.
Sicuramente una delle motivazioni che mi ha spinto a costruire questo progetto è stata proprio quello di appropriarmi di un tempo di studio, di un periodo fisiologico necessario al processo creativo. Un po’ tutti – sia nel teatro che nel cinema -, stiamo andando verso una direzione molto capitalistica. Si produce, si parla di prodotti, si stabiliscono parametri di vendita, piani finanziari, tempi di realizzazioni. Abbiamo creato una vera e propria catena di montaggio che però non prevede la parte più importante e cioè la possibilità dell’errore, cosa che in una costruzione artistica è fondamentale. Dubbi e ripensamenti sono parte indispensabile di ogni realizzazione. Il terremoto di Vanja ha tra i suoi scopi quello di riportare tutto questo al centro del discorso, di ricordarci che l’arte ha bisogno di tempo.
In effetti, per come li metti in scena si capisce che tempo e creazione artistica vanno di pari passo.
Il tempo è uno dei protagonisti principali di tutte le opere di Cechov. È fondamentale perché è quello che ti consuma e ti cambia. È il tempo che ti piega e ti insegna la vita, quindi se non si riflette anche su questo si ha più difficoltà a mettere a fuoco ciò che si sta facendo. Se sei solo impegnato a rispettare la data di consegna, tutto quello che c’è in mezzo viene drogato da un’ansia estranea alle motivazioni per cui hai iniziato a lavorare su un progetto.
Sempre ragionando sul mestiere e sul processo creativo, il film evidenza ciò che a prima vista potrebbe essere scontato e cioè che l’empatia verso un determinato autore non basta per farcelo conoscere. Non solo è necessario studiarlo ma, come hai fatto tu, recarsi nel suo ambiente per empatizzare con ciò che ne ha influenzato il pensiero. Anche questo rientra nella presa di coscienza dello scrittore e del suo lavoro.
Siccome mi sono preso la responsabilità di riportare in scena quel terremoto li, nonché di farlo rivivere a persone che nella realtà ne sono state per davvero vittime, non sapere di cosa stai parlando non ti consente di ricondurre la gente nel modo più consono al trauma da cui esse sono uscite ferite. Se non ti domandi cosa è successo per davvero sei un ipocrita nell’accezione peggiore del termine. La stessa cosa è accaduta per Anton Cechov. Per questa ragione sono andato in Russia prima di mettere in scena questo spettacolo. Il principio che mi ha portato sui luoghi del terremoto è stato lo stesso che mi ha spinto ad andare nei posti in cui è vissuto questo autore. Dopo averlo studiato per cinque anni e aver letto più o meno tutto quello che è stato scritto su di lui un immaginario sulla vita e sulle opere te lo sei fatto. Però, finché non vai a toccare con mano dove ha veramente vissuto e che cosa guardava mentre scriveva faceva sì che nel mio documentario mancasse qualcosa. Come puoi capire si è trattato di un processo di approfondimento molto particolare e il film rappresenta la ciliegina sulla torta nella conoscenza di questo autore. Si tratta di un rapporto lungi dall’essere concluso perché con autori del genere non si finisce mai di imparare.
Vedendo il film e considerando la vita di Cechov mi è venuto in mente Louis-Ferdinand Céline. Entrambi dottori, come dice Cechov, erano protagonisti di una sorta di sdoppiamento. Vivevano le giornate immersi nel dolore degli uomini salvo poi sedersi alla scrivania e diventare un’altra persona. Tutti e due determinati a inventare un linguaggio quanto più vicino alla realtà.
Be, questo è una delle magie di questo autore. Il fatto di analizzare l’essere umano è anche il frutto di uno sguardo freddo e analitico, come deve essere la mano di un medico. Dall’altra parte, mentre ha sempre continuato a fare questa professione, l’esperienza con i malati l’ha trasposta nei suoi personaggi e nella predisposizione a essere estremamente emotivo, pieno di passione e di amore verso ciò che appartiene all’essere umano. Tutto questo Cechov lo metteva in scena per fare da specchio al pubblico, nella convinzione che le persone potessero prendere in mano la propria vita solo rendendosi conto di come erano fatti. Per farglielo vedere c’era bisogno di qualcuno capace di mostrarglielo. In questo senso, dal mito della caverna in poi sono pochissimi i drammaturghi che sono riusciti a fare questa cosa.
Parliamo del dispositivo del film: grazie al montaggio riesci a rendere in un unico flusso una complessità di toni e di narrazioni frutto dell’eterogeneità dei materiali. Il terremoto di Zio Vanja è costruito attraverso l’impiego di materiali d’archivio e di finzione. A sequenze dedicate alle interviste se ne aggiungono altre di pura osservazione in un collage di toni talvolta intimisti e privati, talora partecipati e pubblici. Infine, scegli di girare una parte in bianco e nero.
Il bianco e nero lo abbiamo usato sia per le immagini in Russia che per quelle del terremoto. Questo per mettere insieme la crisi della Russia dell’Ottocento e quella dell’Italia che abbiamo portato in scena. Tenendo in considerazione che la Russia è il luogo per eccellenza della scala dei grigi, per lo meno quella di Cechov, che va da Tauro fino alla periferia di Mosca e poi nella villa di Vilicovo. Lì i colori sono quelli del fango e della neve e di un clima che ha provocato la malattia dello scrittore e di uno dei suoi fratelli. Per forza di cose la scala dei grigi e il bianco e nero ci sembravano le cromie più adatte. Una scelta a cui contrapponiamo quelle presenti nel viaggio all’interno della rappresentazione teatrale e nelle interviste. Per quanto riguarda la scrittura finale del film, questa è stata fatta in fase di montaggio. Avevamo talmente tanto materiale che è stato difficilissimo trovare una quadra e suddividere il documentario in quattro capitoli, tanti quanti sono gli atti in cui è suddiviso Zio Vanja.
Però, nell’insieme il film fluisce in maniera organica, nonostante la sua eterogeneità. Non c’è interruzione tra i diversi momenti del film.
Forse per l’idea che sono riuscito a trovare e cioè di individuare in ogni atto un tema fondamentale che si dipanasse in tutti e tre le linee narrative dei viaggi. In questo la voce narrante di Toni Servillo e le didascalie di introduzione che ci accompagnano fino alla fine hanno fatto il resto.
Nel film hai messo una delle riduzioni cinematografiche più famose di Zio Vanja, quella di Andrej Konchalovskj. Ti volevo chiedere se nella stesura del tuo film avessi visto quella di Louis Malle, Zio Vanja sulla 42 strada, nel suo genere un vero e proprio capolavoro.
Assolutamente, si tratta di una versione magistrale nella riduzione che ne dà la sceneggiatura di David Mamet. Sai, questi film sono la dimostrazione che quando un genio è eterno lo si può ambientare in ogni epoca e luogo, purché non se ne tradiscano le motivazioni principali. Sia nel caso di Konchalovskj che in quello di Malle parliamo di capolavori. Per quanto mi riguarda non mi sono fatto alcuno scrupolo di coscienza, semplicemente perché mi sono detto che se questo testo funzionava negli Stati Uniti degli anni Novanta così come nella Russia dell’Ottocento doveva funzionare lo stesso anche ambientandolo in Italia. Che poi – e non lo dico io ma assoluti luminari – il nostro Anton Cechov lo abbiamo avuto nella figura e nell’opera di Eduardo De Filippo. Molti parallelismi sono stati fatti, così come molto successo ha avuto Eduardo nelle sue tournée in terra sovietica, a testimonianza del profondo collegamento tra le anime dei personaggi dei due drammaturghi.
In qualche modo rendi omaggio a questo parallelismo, chiamando un grande drammaturgo napoletano, Toni Servillo, per dare voce alle parole di Cechov, con cui a un certo punto hai una sorta di ideale dialogo. Ad accompagnarti in questa avventura ci sono, poi, alcuni attori che da sempre e in diversi modi fanno parte della tua vita, personale e lavorativa.
Essendo stato un viaggio molto intimo, avevo bisogno di compagni di viaggio con cui in qualche modo avessi già una profonda confidenza. Avevo necessità di persone che accompagnassero questa mia ossessione in una maniera molto vicina. Non potevo permettermi di avere degli scritturali normali. Per quanto riguarda Toni Servillo non smetterò mai di ringraziarlo, perché quando gli ho chiesto di prestare la voce a Cechov ha accettato immediatamente con l’entusiasmo e la vicinanza di chi concepisce il teatro come una precisa condivisione di intenti. Parlo del tentativo di alzare l’asticella di ciò che si propone, con lo spirito di educare il pubblico non trattandolo da cretino, ma interloquendo da pari a pari; considerandolo come un compagno di viaggio a cui fornisci degli stimoli che in qualche modo lo facciano crescere. La voce di Toni è fondamentale per questo film e il fatto che abbia accettato amichevolmente è un orgoglio e ovviamente un fiore all’occhiello per questo lavoro.
Al cinema e a teatro ti cimenti come regista e interprete con due testi sacri. Mi riferisco non solo a Zio Vanja ma anche a I soliti ignoti che stai portando in giro per l’Italia. Nel farlo dimostri di non avere paura di confrontarti con loro.
Sai, se uno non ci si confronta non li può comprendere. E poi non si possono trattare i mostri sacri come fossero dei cadaveri da onorare e portare nella propria memoria. I grandi maestri devono essere compresi, accettati e, se vuoi, anche traditi da qualche parte, per farli conoscere alle nuove generazioni. Si tratta di un atteggiamento normale nella mia carriera, nel senso che anche come attore ho fatto lo stesso, rapportandomi con Un Tram chiamato desiderio nel ruolo di Marlon Brando, con La gatta sul tetto che scotta, interpretando il personaggio di Paul Newman, ma anche con il Freddo di Romanzo Criminale, che nel film di MichelePlacido era stato fatto da un gigante come Kim Rossi Stuart. Tutto ciò mi ha educato alla frequentazione dei grandi che prima di me si erano comportati nello stesso modo. Questa esperienza è stata formativa, alimentando il mio istinto di tramandare una tradizione. Questo è stato il modo con cui mi sono avvicinato alla regia de I soliti ignoti, nel senso che molte delle generazioni più giovani non sanno neanche chi sia Mario Monicelli o Luchino Visconti, Roberto Rossellini e Vittorio De Sica. Se di questo enorme patrimonio non se ne occupa la scuola qualcun altro lo deve fare. Se non lo facciamo noi non so chi lo deve fare?
Al termine di questo viaggio non posso non chiederti se conti di portare avanti la tua carriera di regista in parallelo con quella d’attore.
Guarda, per il teatro di sicuro, anche perché è più facile poterlo fare. Mi piacerebbe continuare a fare regia anche senza essere nello stesso tempo attore. Nel cinema, come sai, è molto più difficile, dunque mettiamola così: mi auguro che prima o poi anche lì si ci sia di nuovo questa possibilità.
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