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Potiche

“Francois Ozon scherza. Si diverte, da un po’ di anni a questa parte, a mettere in scena commedie in cui gli elementi del comico e del glamour prendono il sopravvento”.

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Francois Ozon scherza. Si diverte, da un po’ di anni a questa parte, a mettere in scena commedie in cui gli elementi del comico e del glamour prendono il sopravvento, anche se le questioni trattate sono assolutamente serie, come quella dell’emancipazione femminile.

Come per i precedenti Gocce d’acqua su pietre roventi e 8 donne e un mistero, anche stavolta il regista francese traspone cinematograficamente una piece teatrale, “Potiche” di Barillet e Grédy, cambiandone alcuni elementi, ma rimanendo fondamentalmente fedele allo spirito del testo.

Catherine Deneuve (Suzanne), Gérard Depardieu (Babin) e Fabrice Luchini (Robert) sono i tre protagonisti attorno ai quali ruota una storia articolata, ambientata alla fine degli anni settanta: Robert è l’odioso padrone di una fabbrica, sposato con Suzanne, la statuina (il termine potiche indica un soprammobile decorativo, ma assolutamente non funzionale, diciamo un vaso), mentre Babin è il deputato comunista (quando il partito comunista in Francia otteneva il 20 per cento dei voti, e in Italia il trenta), con il quale la non più giovane signora aveva, anni prima, intrattenuto una fugace storia d’amore.

Già dai titoli di testa, in cui lo schermo è parcellizzato in più immagini dove vediamo Suzanne correre in un meraviglioso parco e poi conversare con tutti gli animaletti che incontra, è evidente l’iconografia fortemente anni settanta, colorata, divertente, amabilmente anacronistica.

Al centro della narrazione di Potiche c’è lo sciopero selvaggio che i lavoratori della fabbrica di Robert stanno tenacemente portando avanti, ma Ozon, che non è Godard (considerazione questa non di valore, ma solo di stile), ci costringe a assistere a questa situazione dalla prospettiva della famiglia borghese del padrone, perché ciò che gli interessa non è la lotta di classe, ma la differenza di genere. Suzanne da oggetto decorativo e passivo (neanche tanto poi: alcuni divertenti flash-back ci fanno scoprire un’inaspettata e molto intensa attività extra coniugale) prende sempre più coscienza della sue capacità e quando assume le redini della fabbrica, giacché il marito nel frattempo è stato colto da un infarto, si dimostra assi capace. La statuina comincia a muoversi, e il risultato è la rottura degli equilibri (patriarcali) che, fino ad allora, avevano retto la famigliola gaiamente reazionaria.

A completare il quadro ci sono il figlio omosessuale e incestuoso, la segretaria, tipica donna oggetto, amante di Robert, che poi si schiererà dalla parte della moglie, la figlia apparentemente ribelle e invece profondamente conservatrice. Una storia vivace, divertente che vede il trionfo del femminile.

Certo, potremmo dire a Ozon che si è lietamente intrattenuto con la sovrastruttura, ma la sua è una scelta ben precisa e, allora, non resta, con serenità di coscienza, consigliarvi la visione di questo film: cento minuti gradevoli. Sempre meglio che andare al Festival di Roma.

Luca Biscontini

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