Prima di addentrarsi in un’analisi di Parasite, film vincitore della Palma d’Oro alla scorsa edizione del Festival di Cannes, ciò che bisogna premettere e segnalare è l’azzeccatissimo tono tragicomico utilizzato dal regista coreano Bong Joon-ho per mettere in scena una vicenda apparentemente surreale, ma che in realtà descrive con eccellente verosimiglianza le tristi dinamiche dell’ultima fase del capitalismo contemporaneo, in cui lo “spazio liscio” del consumo ha sedato ogni forma di vero antagonismo sociale, dando inizio a quella che Pier Paolo Pasolini definì “la fine della Storia”. Il godimento promesso dall’acquisto delle merci o, ancora meglio, l’idea di godimento che esse garantiscono, ha definitivamente prevalso: il nemico contro cui scagliarsi in nome di una maggiore equità e di una più congrua redistribuzione delle risorse è evaporato, laddove tutto il corpo sociale è stato sussunto dall’ideologia dominante, che azzera il conflitto, rilanciando in continuazione la propria scommessa, quella, per l’appunto, di un godimento a oltranza.
Senza particolari virtuosismi dal punto di vista registico, ma forte di una sceneggiatura solida e ottimamente orchestrata, Bong Joon-ho sbatte in faccia allo spettatore, invitandolo a un salutare risveglio, lo stato della situazione attuale, in cui tutto può essere acquistato, finanche la dignità umana, perché il valore di ogni cosa è traducibile con un’adeguata quantificazione. Ecco, allora, che una disagiata, ma ingegnosa famiglia composta da quattro membri (padre, madre, figlio, figlia), dopo aver escogitato un piano per trovare lavoro presso una coppia di benestanti borghesi residenti in una sontuosa villa nella parte alta della città, si ritrova dallo stato iniziale, in cui crede di sfruttare (il parassitismo del titolo), a quello successivo, in cui comprende quanto, al contrario, sia essa ad essere “vampirizzata”.
Senza entrare nel dettaglio, per non rovinare la fruizione del film, ciò che può essere detto è che, tra un colpo di scena e l’altro, situazioni grottesche a ripetizione, umorismo non convenzionale e anche qualche sequenza sanguinolenta, il regista ci accompagna in un percorso che, in un certo senso, descrive la graduale presa di coscienza dei protagonisti. E con essi, chi guarda assiste a una sorta di rovesciamento, che, si perdoni l’iperbole, fa venire in mente quello attuato da Karl Marx nei confronti dell’idealismo hegeliano. Il valore di Parasite consiste, però, nell’aver aggiornato lo sguardo e la riflessione su questioni che se affrontate da prospettive in disuso non troverebbero più un modo adeguato per essere comprese. Il lato comico sebbene coesista, giustapposto, con quello tragico non può e non deve diventare il potente anestetico che produce una diffusa indifferenza, giacché i drammatici effetti delle contraddizioni della nostra epoca non smettono di farsi pesantemente sentire. Allora, Parasite potrebbe essere paragonato a un grido nel silenzio: un film necessario che, senza offrire soluzioni, si pone il compito di risvegliarci dal torpore in cui da tempo siamo immersi. Il cinema, tra le tante funzioni che gli possono essere ascritte, ha la responsabilità di provocare uno shock nello spettatore, invitandolo a ripristinare quello spirito critico indispensabile per vivere in maniera consapevole la realtà. In questo senso, il film di Bong Joon-ho non può che essere considerato un’opera di rottura, che per originalità ed efficacia non dev’essere mancata.
Parasite sarà al cinema dal 7 Novembre, distribuito da Academy Two che, ancora una volta, dimostra la sua illuminata e coraggiosa politica editoriale e culturale.