Federico Fellini in Prova d'Orchestra (1979) si confronta per la prima volta con il "politico"; ma il «politico» del regista riminese non è quello di Francesco Rosi o di Elio Petri, è un "politico" legato sempre a un mondo di favola, magico, fantastico, che nasce da lontane evocazioni e da ricordi dell'infanzia
Prova d’orchestra è un film del 1979 diretto da Federico Fellini. Fellini definì un filmetto quella che è, a tutti gli effetti, un’opera che s’inserisce perfettamente nell’ottica dei suoi lavori precedenti. Fu presentato fuori concorso al 32º Festival di Cannes. Giorgio Strehler sul Corriere della Sera del 14 Marzo 1979: «amaro, direi disperato e inquietante apologo, questo di Fellini. Certo, proiettato sul piccolo schermo, nella placenta evasiva delle camere buie di tanti telespettatori, non solamente italiani, non potrà non lasciare sgomento chi si pone qualche domanda sul mondo in cui viviamo, sulla qualità di questa Prova d’orchestra che è nostra, che è di tutti i giorni...». Soggetto e sceneggiatura di Federico Fellini, fotografia di Giuseppe Rotunno, musiche di Nino Rota, scenografia di Dante Ferretti, montaggio di Ruggero Mastroianni, costumi di Gabriella Pescucci. Con Clara Colosimo, Umberto Zuanelli, Balduin Baas, Franco Javarone, Claudio Ciocca.
Sinossi Gli orchestrali sono arrivati nella cappella del Duecento dove devono provare un concerto. Ci sarà anche la televisione e tutti si affannano a chiedere spiegazioni al direttore e al sindacalista, che indice uno sciopero contro l’autoritarismo del maestro. L’azione viene interrotta dalla demolizione di un muro: appena la nube di polvere si è dissolta le prove riprendono, ma il direttore inizia a fare un comizio in italiano e in tedesco.
In soli settanta minuti, Federico Fellini riassume quello che a un occhio superficiale e poco allenato può sembrare un’anomalia rispetto alla sua solita produzione. Un Fellini che si lascia alle spalle il suo mondo per scendere fra gli umani e raccontarne le gesta. Basta leggere le cronache di quegli anni per capire: “Il Fellini sognatore, visionario, narcisista inguaribile, instancabile raccontatore di sé, avverso a ogni forma di impegno, è uscito dal proprio “ego” per dare uno sguardo fuori, alla realtà che ci circonda, mettendoci sotto gli occhi una immagine inquietante dell’Italia odierna” (Costanzo Costantini, “Il Messaggero”, 12 novembre 1978). Ma le cose non stanno propriamente in questi termini.
Il messaggio del regista sembra più che mai lontano da quello che superficialmente appare: la critica della società e il brancolare nel buio senza dare allo spettatore la speranza d’una via d’uscita sono solo alcuni tratti di matita che vanno a raffigurare un disegno ben più ampio. Non mancarono in quegli anni coloro che definirono il film portavoce di intenti nazionalsocialisti di un regista che finalmente mostrava la sua anima autoritaria. Ma Prova d’orchestra non può ridursi a un’analisi così spicciola e superficiale. I diversi livelli di lettura presentati nel testo mescolano perfettamente l’alchimia felliniana fra sogno, memoria e realtà, in un mondo che rimpiange il mondo. I musicisti del film sono pieni di ricordi, di sogni, qualcuno fa addirittura i tarocchi su un pianoforte. Ma Fellini non smette neanche per un attimo di sottolineare la presenza del “falso”, dell’inautentico, dell’obiettivo della macchina da presa che riprende in toto i loro comportamenti. Qualcuno s’azzarda a dire “ma quante fregnacce che diciamo”; il direttore d’orchestra si confida invece nel suo camerino snobbando definitivamente il pubblico massificato: “Ma lei crede davvero che pubblico capisce musica?”. È qui che bisogna insistere, che bisogna calcare la mano per leggere le metafore e i simbolismi messi in scena dal regista/direttore d’orchestra. La musica è inizialmente vista come pulsione erotica, sessuale. La suonatrice di piano si lancia in un metaforico monologo che richiama alla poligamia: per poter conoscere, imparare, bisogna suonare su tutti i pianoforti. Non esiste un piano, esiste il piano, ci dice e tutti i pianoforti del mondo sono il piano. E mentre suonano, il direttore sembra nel bel mezzo di un amplesso, invitando i musicisti stessi a spogliarsi e a faticare. Solo più tardi dirà che non c’è più passione, non c’è più musica. Manca il silenzio, la quiete. Lo stesso direttore ricorda i suoi inizi, il silenzio e la capacità della bacchetta di generare il caos. Quella bacchetta che è per Fellini il simbolo della creazione, della sfera del magico, l’esuberanza dell’artista, i suoi capricci nell’atto artistico. “Oggi tutti sono uguali, non c’è più differenza”, alludendo all’appiattimento artistico e culturale portato in auge dal medium televisivo.
In questo caso, la passione viene scambiata per autoritarismo, la superficialità con la quale si taccia il regista per aver affrontato temi così delicati, non sono altro che la risultante di un complessissimo ordine di idee: “il «politico» di Fellini non è quello di Francesco Rosi o di Elio Petri, è un «politico» legato sempre a un mondo di favola, magico, fantastico, che nasce da lontane evocazioni e da ricordi dell’infanzia (Enzo Natta, “Filmcronache”, Elle Di Ci, 1979). Ed ecco che ancora una volta scivola nelle immagini la paura di aver toccato e perso il sogno, nel tentativo di concedere legittimità e forza ad un’arte sempre più collusa con la televisione con la colpa, da parte di quest’ultima, di restituirla alle masse priva del suo fascino. E l’ordine felliniano, da non confondere con quello autoritario di vecchia memoria, è solo un modo per riaffermare la propria autorialità all’interno di un mondo che ha mescolato a tal punto i meccanismi del desiderio da renderli inutilizzabili.
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