È un nostro monito, anche una scelta: non piangere la morte in diretta. Passata in qualche maniera la rabbia, la morte, seppur estremamente correlata alla vita, pensiamo resti sempre una cosa ingiusta. E così arriviamo per ultimi anche in questo ricordo di George Hilton, in questo messaggio che è sempre, semplicemente, un messaggio di affetto, di amore, di amicizia, di gratitudine per l’amico, per l’attore.
George Hilton, insieme a Giuliano Gemma, Franco Nero, Tomas Milian, Terence Hill, Gianni Garko, Antonio Sabato, rimane colui che ha consolidato e vitalizzato uno dei generi più apprezzati della miglior cinematografia, il western all’italiana. I titoli, interpretati da Hilton, come Le colt cantarono la morte e fu tempo di massacro (1966) di Lucio Fulci, Vado l’ammazzo e torno (1967) di Enzo G.Castellari, Il tempo degli avvoltoi (1967) di Nando Cicero, Ognuno per sé (1968) di Giorgio Capitani, insieme ai western del capostipite Sergio Leone, a quelli di Sergio Corbucci e di Sergio Sollima, oltre a qualche titolo di Giulio Petroni e di Duccio Tessari, sono considerati ancora come le opere che hanno fatto la scuola del genere, creando una serie di allievi anche di alto livello, e non solo in Italia. Tra questi c’è stato sicuramente anche Giuliano Carnimeo che proprio con Hilton aveva iniziato un sodalizio importante, per Hilton aveva creato due maschere decisamente superlative – come “Alleluya” e “Tresette” – quando il genere western cominciava a virare, quasi, verso la commedia comica.

Ma stiamo parlando di un cinema che, decisamente, in Italia è sparito da tempo. George Hilton ricordava sempre che da anni c’era un soggetto, Gli implacabili, un western che il regista Enzo G. Castellari ancora oggi sta cercando di imporre presso produttori e distributori, ma sinora il progetto non è mai decollato, nonostante i continui annunci di inizio lavorazione, e forse il progetto non decollerà mai. Diceva George Hilton: “Il mito western è ormai scomparso perché sono venuti meno i produttori di un tempo. Poi il genere si è banalizzato, le basse imitazioni di successi precedenti hanno saturato il mercato. Quello che mi dispiace dire è che oggi il cinema italiano non riesce quasi a trovare una dimensione internazionale, che pure aveva, e con successo, negli anni settanta”.
La vita e la carriera di George Hilton nel cinema sono di quelle che hanno avuto risvolti davvero avventurosi e travolgenti. Gli inizi, difficili come spesso accade nel mondo, precario per eccellenza, del cinema – “il dramma era sempre la telefonata del produttore che poteva non arrivare mai” , diceva Hilton – riguardavano un film di cappa e spada, L’uomo mascherato contro i pirati (1964), per la regia di Vertunnio De Angelis, magnifico per la nostra mentalità di ragazzini dell’epoca, ma che Hilton non menzionava mai tra i suoi film degni di un cenno, anche se continuiamo a pensare che occupava nei suoi ricordi un posto dignitoso: perché con questo film era nato George Hilton in Italia. Hilton era fuggito dall’Argentina, dove si era trasferito dal natio Uruguay. In Uruguay era già un apprezzato scrittore di teatro, in fondo seguiva le orme del nonno materno, un autore molto famoso in Sudamerica, Manuuel Acosta Ilara, e le piece di George venivano messe in scena nei teatri semi-dilettantistici e da lui stesso interpretate; insomma, stava diventando un apprezzato giovane autore ed attore del teatro uruguayano.

Ma la carriera d’attore, da George tanto agognata, in Uruguay non poteva avere grossi sbocchi e la sua ambizione era davvero grande, quindi la decisione di trasferirsi nella più estesa Argentina. Dopo aver frequentato una scuola di teatro inizia a lavorare nel cinema argentino. E restano film notevoli quelli realizzati in quel periodo, come Hilton sottolineava spesso, importanti proprio per l’economia professionale della carriera: Los tallos amargos, Una viuda dificil, un titolo come El bote, el rio y la gente, che vinse anche un premio al prestigioso Festival del Mar del Plata, ed Alto Paranà che, come ricordava Hilton, è stato il primo film argentino girato in cinemascope.
Conosciuta una donna argentina di dodici anni più grande di lui, George Hilton si era innamorato. Il lavoro nel cinema argentino assolutamente non gli mancava, ma, nel frattempo, il rapporto che stava vivendo con questa donna lo stava esaurendo proprio dal punto di vista della fantasia, del talento, della linfa vitale. Quella donna, insomma, non lo sosteneva dal punto di vista del lavoro e dell’affermazione, e di tutto questo Hilton ne prendeva giorno dopo giorno coscienza. Così immediatamente decide e matura il motivo liberatorio: la fuga. Spiegava di aver stravolto il famoso rito del marito che dice alla moglie “esco, compro le sigarette e torno”, ed invece non torna mai più. George Hilton, infatti, ha fatto proprio il contrario: ha mandato la sua donna a comperargli un libro, visto che aveva accennato a un malessere fisico e quel giorno assolutamente voleva restare a casa. Da qui trovarsi all’aeroporto di Buenos Aires e prendere il primo volo disponibile è stato un tutt’uno. Si è trovato così quasi catapultato in Italia, proprio per fatalità, perché l’unico volo di partenza immediato era diretto verso lidi italiani. Milano è stato il suo primo approdo, ma, per un uomo amante del mare come Hilton, non poteva essere una meta definitiva. La seconda tappa del suo peregrinare italiano è stata Genova, città di mare e di marinai, habitat amorevole e preciso per lui. A Genova conosce un’altra donna, una pianista: questo incontro stabilizzerà un po’ la sua esistenza artistica, ma presto anche i suoi pensieri. George Hilton non era felice, anche questa unione genovese cominciava ad essere un amore impossibile per le sue ambizioni, per le sue qualità, per il suo talento. George Hilton stava rivivendo a Genova un po’ i termini del suo precedente rapporto in Argentina. La decisione quindi è stata quella di una nuova fuga improvvisa. L’attore ha raggiunto finalmente Roma nel 1963, in un momento in cui davvero Roma era la patria del cinema, e questo anche in termini internazionali.
Diceva George Hilton: “La mia fortuna a Roma è stata quella di incontrare degli attori italiani che avevo conosciuto in Argentina, al festival del Mar del Plata, come Antonio Cifariello, Fausto Tozzi, Nino Persello. Devo a loro la mia permanenza in Italia ed i primi contatti con il mondo del cinema italiano, che mi hanno poi permesso di lavorare con continuità”.

Il secondo film italiano di Hilton è con la coppia Franco Franchi e Ciccio Ingrassia in Due mafiosi contro Goldginger (1965) di Giorgio Simonelli, e si ritroverà insieme alla coppia anche in I due figli di Ringo (1967), sempre di Giorgio Simonelli. Quello con Franco e Ciccio è, in fondo, il primo incontro dell’attore con il cinema farsesco e puramente comico, che poi riprenderà alla fine degli anni Settanta, dopo i grandi successi nel western e nel giallo-poliziesco. Oggi è quasi un privilegio, almeno a parer del cronista, nei termini dell’attuale storia del cinema italiano, aver lavorato al fianco di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, e George Hilton, nella sua generosità intellettuale, di questo ne è stato sempre consapevole: “In Due mafiosi contro Goldginger ho conosciuto anche attori di prestigio internazionale come Fernando Rey. Qui c’era anche un Lino Banfi alle prime armi, ancora in un piccolissimo ruolo”. Ma il grande successo del western all’italiana era alle porte, e per Hilton, infatti, si spalancarono subito dopo.
Oltre ai titoli già citati, George Hilton è protagonista, tra il 1966 ed il 1968, di altri memorabili western, anche se lui li considerava meno, da un punto di vista della soddisfazione personale. Alla rinfusa citiamo alcuni titoli: Kitosh, l’uomo che veniva dal nord, Professionisti per un massacro, La più grande rapina del west, Un poker di pistole, Il momento di uccidere, T’ammazzo, raccomandati l’anima a Dio, Uno di più all’inferno, C’è Sartana … vendi la pistola e comprati la bara, Quei disperati che puzzavano di sudore e di morte. Quindi nei primi anni Settanta, finalmente, i personaggi più calzanti e personali: Testa t’ammazzo, croce sei morto, mi chiamavano Alleluya, Il west ti va stretto amico, è arrivato Alleluya, Fuori uno, sotto un altro, arriva il Passatore, ma soprattutto la serie dei Tresette: Lo chiamavano Tresette, giocava sempre col morto, Di Tresette c’è ne uno, tutti gli altri son nessuno, Lo chiamavano Tresette, faceva sempre cappotto. Ricordava George Hilton, con grande soddisfazione, che il western Ognuno per sé di Giorgio Capitani resta conservato in Francia nella Cinematheque, e rimane un privilegio riservato a pochissime pellicole western di livello internazionale, e che il regista Giorgio Capitani è considerato un autore notevole dalla critica francese.
Quando, come ha spiegato bene George Hilton, il mercato del genere western si era ormai inflazionato, una nuova corrente cinematografica nell’ambito del cinema di genere prendeva quota, quella del thriller a sfondo erotico. E George Hilton, soprattutto con Sergio Martino, inizierà un breve sodalizio che lo porterà ad interpretare, in questo senso, titoli che sono tutt’ora leggendari per il genere, Lo strano vizio della signora Wardh (1971) e Tutti i coloro del buio (1972), interpretati in coppia con Edwige Fenech, mentre per la regia di Anthony Ascott (Giuliano Carnimeo) Perché quelle strane gocce di sangue nel corpo di Jennifer (1972) e, per la regia di Tonino Valerii, quello che viene considerato ancora oggi un piccolo grande gioiello del cinema di genere, Mio caro assassino (1972), in cui recitava in coppia con l’eccelso Salvo Randone. Tra tanti altri titoli anche Contratto carnale (1973) di Giorgio Bontempi, interpretato con Enrico Maria Salerno, Taxi girl (1977) di Michele Massimo Tarantini, Milano … difendersi o morire (1978) di Gianni Martucci, Teste di cuoio (1981) di Giorgio Capitani, Ricchi, ricchissimi, praticamente in mutande (1982) di Sergio Martino, Fuochi d’artificio (1997) di Leonardo Pieraccioni, Natale in crociera di Neri Parenti.
Non sono mancate, nell’atto dei ragionamenti sulla sua filmografia, quelle che sono state un po’, in fondo, le occasioni perse dall’attore. Michelangelo Antonioni, ad esempio, dopo aver visto il western di Lucio Fulci Le colt cantarono la morte e fu tempo di massacro, volle conoscerlo immediatamente, perché riteneva l’interpretazione, quella di un cowboy sempre ubriaco, di alto livello, ed ha tenuto l’attore, da quel punto in poi, in una sorta di provino continuo, fino a considerarlo giusto per il ruolo di protagonista di Professione: reporter (1975), che poi fu affidato a Jack Nicholson, solo perché non si trovarono gli estremi di concorso tra gli accordi di noleggio internazionale tra produzione e distribuzione. D’altronde, un ruolo in un film d’autore George Hilton lo sfiorò già una prima volta nel 1970, quando Vittorio De Sica, all’atto di varare il casting per il suo film Il giardino dei Finzi Contini, premio Oscar nel 1971, dopo vari esami e consultazioni, accordò la parte all’attore Fabio Testi. Ma, come aveva ricordato umilmente George Hilton, in sede di conversazione, quella scelta fu giustissima, dato che Testi era proprio tagliato alla perfezione per quel ruolo. Ma ancora prima, nel 1967, anche Pasquale Festa Campanile aveva pensato al nostro George come protagonista di un film importante come La cintura di castità, ma anche in questo caso gli accordi internazionali non riuscirono a concatenarsi tra di loro e il ruolo fu affidato all’attore americano Tony Curtis. Ma per George Hilton, gran bel signore, queste grandi occasioni mancate non sono mai state vissute come dei crucci, a lui erano bastate, in fondo, le comprensioni da parte di questi autori notevoli del cinema, come appunto Michelangelo Antonioni, Vittorio De Sica, Pasquale Festa Campanile, e le prove di fiducia offerte e vissute come dei veri e propri attestati di merito, dei veri e propri riconoscimenti, non manifesti, alla sua carriera.
Grazie George, grazie anche per la tua umiltà.