Da dove viene la storia del film e quanto c’è di personale in essa?
Un giorno, il mio amico e co-sceneggiatore Juan Manuel Bordón mi ha mandato due pagine che contenevano un titolo curioso – La educación del Rey – e la stesura dei due personaggi principali. Immediatamente ho trovato l’idea molto potente, perché ha toccato un aspetto molto controverso e contemporaneo dell’odierna Argentina con un approccio favolistico (l’idea di un Rey, un re, che era un piccolo ladro). Abbiamo sviluppato la storia per tre anni in attesa di avere la possibilità di poterla filmare.
L’educazione di Rey è raccontato con sguardo oggettivo. Questo ti consente di rendere universale il particolare che caratterizza l’incontro tra i due protagonisti. È questo un problema che ti sei posto prima di iniziare a girare il film?
Penso che le relazioni maestro-studente siano un tema universale perché trattano della trasmissione dell’esperienza umana. Durante le nostre vite accumuliamo alcune conoscenze particolari e il passare di quella conoscenza racchiude una grande importanza emotiva. Durante le riprese mi sono concentrato nel cercare di mostrare l’incontro tra Rey e Carlos senza imporre un’opinione morale a riguardo. Questo era l’obiettivo principale della storia: essere in grado di narrare un incontro tra due esseri umani che potrebbero aver bisogno dell’aiuto reciproco in quel punto della loro vita.
Nel film ometti di fornire particolari sul passato dei protagonisti, così come non fornisci allo spettatore una topografia esatta dei luoghi in cui si svolge la vicenda. Un’essenzialità che appartiene anche alla natura delle immagini. Si tratta di una caratteristica del tuo modo di fare cinema, oppure nasce da una precisa esigenza narrativa?
Volevo che il film fosse una scoperta progressiva di entrambi i personaggi. Mi interessava che la loro storia iniziasse insieme al film. E quella stessa idea è applicata allo spazio del film. Penso che la cosa più importante quando realizzi un lungometraggio risieda nel trovare la giusta distanza per fotografare sia i personaggi che gli spazi. Nel caso de L’educazione di Rey volevo stare vicino alle emozioni dei protagonisti, così mi sono concentrato su come ottenere la migliore recitazione possibile. Una soluzione che ci ha permesso di girare in maniera molto veloce.
Volevo chiederti la maniera in cui hai gestito la sequenza in cui Rey oltrepassa il punto di non ritorno, reagendo in maniera inaspettata nei confronti di chi gli chiede di consegnargli lo zainetto con i soldi rubati.
Quella sequenza è stata girata solo in una notte. Per me è stato molto importante perché in piccole porzioni di tempo accadono molte cose che l’occhio è capace di cogliere al primo impatto. Volevo che il pubblico capisse che Rey è stato spinto al limite e, allo stesso tempo, ha già imparato alcuni trucchi da Carlos su come difendersi. Come dici tu, è un punto di non ritorno, e in un momento del genere volevo mantenermi distante dal sottolineare una semplice prospettiva morale.
Il racconto procede per archetipi, tanto nella raffigurazione dei personaggi quanto nella rappresentazione degli avvenimenti. Questo non impedisce al film di far sentire un forte attaccamento alla realtà della società argentina. Che lavoro hai fatto per tenere insieme questi due aspetti?
Ho imparato a fare film usando la realtà che mi sta più vicina. Soprattutto perché non ho molte risorse e non sono stato abbastanza paziente da aspettare che il produttore giusto entrasse nella mia vita. Volevo realizzare una storia di formazione vecchio stampo. La realtà intorno a me ha trovato la sua strada nel film da sola, mentre mi informavo su di essa dai giornali, usando alcune cose nella sceneggiatura. Ogni film è il documentario di una finzione che stai facendo, ha detto Godard. Solo alla fine, quando ho visto il film finito in un sala di proiezione, mi sono reso conto di quanto mi stesse a cuore la realtà del mio paese. Questo mi ha costretto a pensare al contesto, scoprendo che una storia come quella raccontata ne L’educazione di Rey sarebbe potuta accadere solo in una situazione sociale molto critica.
Considerato che Matias Encinas è un attore esordiente, mentre German Silva è uno degli interpreti più famosi del vostro paese, volevo chiederti se il rapporto d’ammirazione del primo verso il secondo sia entrato a far parte di quello di Rey nei confronti di Carlos?
Ovviamente. Durante le riprese, Matias era completamente concentrato, ha usato tutta la sua energia adolescenziale per imparare come diventare un attore. È stato incredibile per me testimoniare questo processo. D’altra parte, per German recitare è più facile che respirare (non è solo un modo di dire: perché durante le riprese ha avuto una tremenda reazione allergica causata da un particolare tipo di albero). Ansimava e faceva fatica, ma durante le riprese era sempre perfetto. Sul set lui e Matias erano davvero connessi e, ovviamente, ha avuto modo di osservare da vicino l’enorme talento e l’esperienza di German.
L’educazione di Rey rappresenta il tuo film d’esordio. Che tipo di percorso hai compiuto per arrivare al punto di poterlo realizzare?
È stato un lungo cammino. Dopo aver conseguito la laurea in psicologia e aver studiato cinema, ho lavorato per molti anni come montatore per altri registi argentini. Ho realizzato tre cortometraggi, uno dei quali è stato preselezionato per l’84a edizione degli Academy Awards. È stato difficile per me ottenere il finanziamento del primo film, perché non volevo rinunciare alle prerogative principali del progetto, cosa che succede quasi sempre se lavori con un grande produttore. La sceneggiatura di L’educazione di Rey ha vinto un fondo nazionale per realizzare una piccola serie televisiva. Dopo averla girata, ho usato quel materiale (e ho girato alcune scene complementari) per realizzare il film. Non si è trattato di un processo convenzionale, ma alla fine ho potuto ottenere qualcosa di più vicino all’idea iniziale.
Svincolato dai finanziamenti di stato e, quindi, non necessariamente obbligato a svolgere una funzione educativa rispetto alla tragedia della storia più recente del paese, il cinema argentino ha trovato nella produzione di genere, sul tipo Il segreto dei suoi occhi, la via per il successo internazionale. Nel tuo caso, cosa ti ha spinto a raccontare attraverso la forma del thriller esistenziale?
Sono appassionato di diversi tipi di film. Amo quelli che ti tengono sul bordo della poltrona per le giuste ragioni. Penso che sia un modo per avvicinare il pubblico alle storie e ai personaggi, per coinvolgerlo emotivamente. Nel caso de L’educazione di Rey penso che l’influenza dei film western e noir sia stata molto forte. Volevo fare un film sul coraggio e la generosità, e questi sono valori forti in quelle tradizioni cinematografiche.