Purtroppo Bayoneta di Kyzza Terrazas, regista messicano al suo secondo lungometraggio, non aggiunge granché di nuovo alla lunga serie esistente di film sul pugilato, tema cui la Settima Arte si dedica instancabilmente da sempre, per fortuna in diversi casi con risultati decisamente più apprezzabili di questo. Presentato nella selezione ufficiale della Festa del Cinema di Roma, il film racconta la vita inquieta e sciatta di un ex pugile messicano una volta promettente (il cui “nome d’arte” Bayoneta dà il titolo al film) traumatizzato da un incidente avvenuto qualche anno prima, dopo il quale ha smesso di combattere ed è finito nel dimenticatoio, con la piccola variante che dal Messico si ritrova a vivere in Finlandia, non si capisce bene per quale motivo, con una figlia piccola e lontana che è comunque la sola motivazione che lo spinge ad andare avanti e l’immancabile ripresa a combattere perché non sa fare altro.
Al di là della scarsa originalità, la narrazione è sempre piuttosto scostante, sia la caratterizzazione dei personaggi che il susseguirsi degli eventi sono sfuggenti e non riescono a mantenere vivo l’interesse dello spettatore, né tanto meno a coinvolgerlo in quella che dovrebbe essere una trama drammatica. La sceneggiatura, scritta a due mani dallo stesso regista insieme a Rodrigo Marquez-Tizano, non spicca certo né per continuità, né per verve e ritmo, ed è costellata da punti morti che lungi da conferire al film fascino minimalista, lo rendono indolente e inespressivo. A parte un tentativo, peraltro abbastanza sbrigativo e nemmeno chiaro, di indagare su cosa vive un pugile nel dover fare del male al suo avversario fino addirittura a vederlo morire, espresso in modo particolare in una scena che forse è l’unica che possa considerarsi coinvolgente, il resto della pellicola procede in modo piatto, a tratti confuso e ne risulta un prodotto abbastanza indefinito e anonimo. Niente viene approfondito sufficientemente da destare interesse, non le relazioni, non i personaggi, non la dinamica degli eventi; non vengono proposte né esplicitamente, né metaforicamente, particolari riflessioni in merito a nessuno dei suddetti ambiti.
Il protagonista, interpretato in modo abbastanza inespressivo da Luis Gerardo Méndez, che non offre una performance particolarmente incisiva, si fonde con lo scarso spessore e con il grigiore del resto del film. Il suo dovrebbe essere un animo in pena, reso arido e freddo come il posto in cui vive da un passato pesante e doloroso che gli impedisce di dar spazio alle emozioni, di aprirsi ancora, di credere in se stesso. Ma questo è quello che possiamo intuire essere stato probabilmente l’intento del regista, che però non corrisponde alla sua riuscita, in quanto questi aspetti non vengono mai trasmessi efficacemente.
Vi è anche una sorta di parentesi vagamente surreale, probabilmente simbolica, rappresentata dalla comparsa di un alce, che lascia allo spettatore la sua interpretazione e che sarebbe potuta essere interessante, ma essendo del tutto avulsa dal contesto, ne resta troppo distaccata senza riuscire a dare il senso metaforico presumibilmente auspicato. La fotografia è discreta e sono evidenti le buone intenzioni del regista che però si dimostra ancora acerbo, così che gli aspetti positivi risultano inconsistenti e non riescono a compensare le mancanze.