Quale necessità hai sentito di girare una storia come questa?
Bismillah nasce dall’esigenza di raccontare un messaggio che vada un po’ oltre l’immigrazione, essa è più una cornice che mi offre la possibilità di valorizzare sentimenti universali come la fratellanza o la speranza. L’ispirazione è nata un pomeriggio d’estate, quando ho letto un articolo in cui era scritto che nel 2011 l’Italia aveva registrato il maggior numero di immigrati nella sua storia, circa ventitremila. Il vero dato allarmante, però, era quello relativo al fatto che undicimila vivevano come fantasmi nel nostro territorio, quindi come clandestini. Allora mi sono fatto una domanda: nel momento in cui una persona scappa dall’inferno del proprio paese e, superato il viaggio, tocca nuovamente terra ferma, i problemi sono finiti? Quindi, ho preso casi vincenti, persone che ce l’hanno fatta a vivere da clandestine una nuova vita, senza rischiare la morte. Facendo ricerche, ho capito che c’era anche la paura di denunciare uno stato di salute, perché si attivava in qualche modo un iter burocratico tale da poter poi sfociare nell’espatrio. Quindi, vivevano veramente nel terrore.
Viene da pensare che anche il discorso sull’infanzia ti stesse a cuore più di altri, nell’affrontare una storia del genere. Credi sia davvero così?
Sì, è un qualcosa che mi sta proprio a cuore, anche perché nei miei lavori ho sempre avuto protagonisti giovani. Non so per quale motivo, forse è un mondo che riesco a rappresentare su carta meglio di altri. Mi viene più istintivo, più facile raccontarlo, magari perché tutti siamo già stati ragazzi e ti scatta un’empatia particolare. Però, una volta scritta questa storia, mi sono fermato un attimo e ho ragionato sulla tematica, perché quello dell’immigrazione è un tema abusatissimo e non volevo raccontare una storia già raccontata da altri. Limitarmi a realizzare uno dei tanti corti era qualcosa che mi spaventava, non tanto per il timore che fallissi io come regista, ma perché non volevo avviare un’operazione di fatto inutile, che corrispondesse soltanto a una vocazione, a un’espressione solo mia. Poi però ho messo bene a fuoco l’argomento e ho notato che questo non era simile ad altri corti che avevo visto, perché in qualche modo è una sfaccettatura che mancava, parla di immigrazione da un altro punto di vista ancora.
Cosa si prova nel sapere che il proprio cortometraggio è in corsa per l’Oscar?
Questo è un aspetto che carica sicuramente di grande responsabilità tutto l’entourage del cortometraggio. Diciamo che dopo il David di Donatello era scontato, perché chi partecipa alle selezioni agli Oscar per i lunghi è stato scelto da una commissione del proprio paese, mentre i corti partecipano agli Oscar se hanno vinto un premio facente parte del circuito di festival nazionale. Quindi, automaticamente, l’elezione era scontata. Inoltre, questo cortometraggio ha avuto nomination anche in festival che fanno parte del circuito degli Oscar, tra cui il Rhode Island negli Stati Uniti, Busan in Corea e l’Encounter, nel Regno Unito, che è anche legato agli EFA. Quindi, l’emozione è grande quando viene ufficializzato questo percorso. Ho sempre visto i premi come un punto di partenza, nel senso che, se si perde il fuoco, facendo scattare meccanismi di presunzione, rischi di non raccontare più nulla. Io ho soltanto affrontato un percorso nel cinema breve, ma ancora devo affermarmi come regista, quindi, prendere ciò come un punto di arrivo sarebbe stato sciocco. È una gratificazione che sta a significare che il percorso è stato affrontato nel migliore dei modi, ma bisognerà fare meglio.
Se dovessi passare al lungometraggio, che tipologia di film faresti?
Sicuramente, mi sforzerei di mantenere sempre la libertà di scegliere una storia che convinca me, prima di altre persone, perché quello che ho avuto fino ad ora è stata la libertà di espressione, cosa che ti garantisce solo il mercato del cortometraggio. Il lungometraggio, invece, ha altre dinamiche che sono più vicine a quello che è il mercato, alla burocrazia.
Quali sono i registi che ti ispirano maggiormente?
Sono tanti. Amo il cinema di Lanthimos, soprattutto la prima parte della sua filmografia, l’ultima un po’ meno. Amo poi il cinema di Farhadi, dei fratelli Dardenne, di Mungiu. C’è poi un regista italiano di cui faccio il nome non perché potrebbe giovare, essendo in questo momento così gettonato, ma perché riesce ad entrare più facilmente in sintonia con la mia sensibilità, ed è Garrone.
In chiusura, vorremmo chiederti qualcosa su una nuova esperienza cinematografica che si è intersecata con le altre, ovvero il Saturnia Film Festival. Come si struttura una manifestazione del genere, che appare piuttosto articolata e votata a sondare terreni diversi? Ed è stato difficile avviare un’interazione costruttiva con la zona dove si svolge, già così famosa per via delle terme?
Il Saturnia Film Festival è nato proprio con l’obiettivo di poter premiare il lavoro di un regista, indipendentemente dal genere, indipendentemente da quella che a volte può essere la “linea editoriale” di un festival. Noi abbiamo deciso di prendere il bello, secondo il nostro punto di vista. Assecondando in più una vena abbastanza eclettica: se c’è un thriller fatto veramente bene, che trasmetta poi le emozioni tipiche del genere, come si è visto con il film spagnolo premiato quest’anno, perché non inserirlo in un contesto simile? Io come Direttore Artistico del Saturnia Film Festival ho cercato proprio di lavorare su questo, sull’offrire al pubblico la maggior varietà possibile di film. Il festival poi, seppur alla prima edizione, vanta già un supporto importante da parte di Medusa, che fa parte della giuria; nonché l’appoggio della signora Enrica Fico Antonioni, che è la moglie del Maestro, la quale ha voluto concedere al miglior regista un simbolico Premio Michelangelo Antonioni, che assieme alla statuetta prevede anche per il vincitore 1500 Euro in denaro.
Per quanto riguarda le sinergie col territorio, questo ha fatto più parte del lavoro della presidente del festival, Antonella Santarelli, che ha cercato di coinvolgere il più possibile le energie del luogo e di creare una rete. Sicuramente il primo anno ha faticato tanto, perché c’era un po’ di scetticismo in giro. Però quello che è riuscita a fare è fenomenale, visto che le strutture hanno risposto bene e che la serata finale si è svolta alle Terme di Saturnia, un luogo davvero incantevole.