Yara di Abbas Fahdel, in concorso al 71 Locarno Festival, illustra con delicatezza e sincerità il primo amore di una giovane che vive con la nonna in una piccola fattoria in una vallata nel nord del Libano. Il regista iracheno, naturalizzato francese, ha già diretto tre documentari molto apprezzati sul suo paese d’origine, e questo Yara è la sua seconda opera di fiction presentata in prima mondiale. La mano documentarista si nota fin dalle prime inquadrature: con un montaggio secco e accumulativo, sono mostrate la stretta valle, la fattoria incastonata in un lato della montagna, le capre, i gatti, le galline, il mulo e il cane, tutti gli animali della piccola casa. L’incipit termina con un totale su Yara (il personaggio del titolo) sul proprio letto che si sta svegliando.
Il film si sviluppa in modo piano, con una lentezza che fa respirare i movimenti della ragazza e di sua nonna (altro essere umano vivente), mentre vediamo Yara che fa la toilette, chiacchiera con l’anziana donna, beve il tè, riceve un uomo con i suoi due figli piccoli che su un dorso di un mulo porta i viveri dopo un’ora di cammino, oppure scambia qualche battuta con una guida locale che utilizza la casa di Yara come punto di ristoro per i turisti. La tranquilla beatitudine di Yara, che con lo sguardo esplora la bellezza della valle, viene interrotta con l’arrivo di un ragazzo, Elias, in gita solitaria tra i monti. Da quel primo incontro ne seguiranno altri fino all’innamoramento dei due, e poi il grande dolore di Yara quando Elias gli rivela che deve emigrare in Australia dove il padre vive e lavora. Nel frattempo, con mano lieve e sguardo epifanico, Abbas Fahdel segue i due ragazzi in giro per la valle abbandonata, perché gli abitanti o sono morti (tra cui i genitori di Yara) o sono fuggiti via lontani. Ecco che li vediamo esplorare una vecchia casa, una scuola, una chiesa dove la campana viene suonata da Elias; oppure li spiamo mentre fanno il bagno in un pozza d’acqua ai piedi di una piccola cascata in una radura lucente e verde o lungo i sentieri impervi e scoscesi della valle.
Yara diventa così una sorta di poema visivo composto da versi, dove si alterna la felicità dell’innamoramento e la nostalgia delle persone che non ci sono più. La valle è un cimitero dei ricordi di una comunità ormai scomparsa e la ragazza e sua nonna rimangono le uniche testimoni della bellezza incontrastata della natura selvaggia. Così, il paesaggio è il terzo protagonista della pellicola, importante scenario emotivo, cuna gozzaniana, in cui si muovono gli animali e gli uomini in piccoli gesti e quotidiane faccende. Alla fine, quando Elias non ci sarà più, rimarranno sempre Yara e sua nonna e il ragazzo diventerà un altro dolce ricordo per la giovane donna.
Abbas Fahdel, oltre a dirigere, scrive, produce, fotografa, registra il suono e monta Yara, in una prova autoriale totale di cinema di poesia, dove i volti e i paesaggi sono ripresi in momenti di realtà. Su tutto poi svetta la dolce e brava Michelle Wehbe, al suo debutto, che interpreta Yara con una naturalezza ipnotica. L’ennesima grande prova attoriale in questo Festival, che darà del filo da torcere alla giuria per l’assegnazione del premio alla migliore interpretazione femminile (e non ci stupiremo se uscirà fuori un ex aequo).