In forma di incontro-intervista, inizio qui una ricognizione dichiaratamente partecipe, partigiana, di parte, parziale su alcuni dei luoghi/eventi/appuntamenti che a mio avviso meglio tengono in considerazione quella frazione scheggiata e sfuggente di ricerca e produzione cinematografica più desiderosa, per urgenza interiore, di resistere attivamente allo status quo, per insofferenza alla cerimoniosità e alla canonizzazione, per vocazione minoritaria, per lucidità di analisi, per rabbia autarchica. Per rivendicare la sopravvivenza della poesia o per farsi beffa del buon senso comune, per proporre alternative etiche ed estetiche in forma di esperienze audiovisive aperte.
“Educare allo zero”, si legge in uno dei preziosi omaggi in forma di cartolina che fanno parte dell’aforismario laterale distribuito all’ingresso in sala, al cinema San Nicola di Cosenza, lì dove si è svolto a inizio giugno il secondo Laterale Film Festival, a cura di Mattia Biondi e Antonio Capocasale, in collaborazione con l’Associazione Culturale Kamen.
In una dichiarazione programmatica di questo genere, che ricorda il metodo di John Cage e gli studi di Roland Barthes, c’è la strategia d’azione e di ricognizione di un appuntamento che, seppur nato solo nel 2017, è già un piccolo punto di riferimento per una modalità altra di indagine sul cinema del presente, quella che punta l’attenzione su quel che riguarda la forma e l’immagine, un festival attento e coraggioso nel poggiarsi su criteri di valutazione e di selezione lontani dall’opportunitsmo festivaliero imperante, quello dei grandi numeri e/o dei grandi temi, delle grandi storie, dei grandi abbagli, dei grandi nomi, nell’esigenza di uno spostamento di sguardo, di pratiche, di senso. Dichiaratamente, una macchina per esplorare l’invisibile.
Educare allo zero è ripartire (ogni volta) da capo?
Antonio Capocasale: Può significare mettersi nella condizione, sia come cineasta che come pubblico e quindi come festival, di non poter dare per scontato/di dover reimparare a contare, di trovarsi nella condizione di essere sempre al primo film pensato, fatto, proiettato, visto. Come se non esistesse ancora una storia del cinema, come se quell’invenzione non avesse avuto un avvenire, dunque ancora bambina e quindi tutta da giocarsi.
Mattia Biondi: Può anche significare provare a disperdere i propri riferimenti, soprattutto quelli cinefili, resettare alfabeti e linguaggi e divenire stranieri a sé stessi: una condizione molto interessante e probabilmente decisiva per conquistare occhi nuovi e consapevolezze inattese.
Come è nato il festival? Perché?
A: I fattori che in una prima fase ci hanno motivato erano di due specie: da un lato c’era la percezione della mancanza di uno spazio aperto di condivisione e ricerca all’interno del quale far gravitare opere meritevoli, coraggiose, non incasellabili, che troppo spesso vengono centrifugate dai festival (auto)celebrativi e penalizzati da logiche competitive, o trattati con sciatteria. Dall’altro il rendersi conto di un universo molto ricco, differenziato di filmmaker che concepiscono la forma breve come qualcosa di autonomo, compiuto, con una sua dignità, e non soltanto come lungometraggio in minore, o un condensato.
Abbiamo poi lavorato affinché il festival fosse anche un’occasione di incontro tra cineasti che hanno forti affinità linguistiche, tecniche, produttive gli uni con gli altri, ma che spesso si ignorano proprio perché mancano canali e occasioni. Tendiamo a un avvicinamento tra opere e pubblico, perché determinati lavori aventi forza di cinema, o comunque meritevoli di vedersi su grande schermo e in sala, potessero condividersi e circolare non più in comunità solo virtuali. Abbiamo avuto modo di renderci conto che tale bisogno era condiviso, e la risposta del pubblico in termini di affluenza e di attenzione e curiosità è stata estremamente positiva.
M: Ci interessava anche sperimentare la possibilità di trasformare in energia positiva il forte e sincero risentimento, avvertito da entrambi, nei riguardi delle sconfortanti strumentalizzazioni e banalizzazioni culturali che impongono un cinema continuamente soggetto ai soliti nomi, ai grandi temi e ai grandi numeri, questione preoccupante alle nostre latitudini; è per questa ragione che ci piace definire Laterale vero e necessario anti-festival: nessun premio, nessuna giuria, nessuna retorica, nessuno spettacolo. Semplicemente la qualità delle opere in mostra come cuore pulsante dell’iniziativa, al netto di ogni altra implicazione. Ci incuriosiva molto l’idea di provare a fare le cose a modo nostro, azzerando completamente modelli e schemi predefiniti.
Laterale rispetto a cosa?
A: Quando come produttore culturale non serve andare indietro, e davanti hai degli ostacoli di vario genere (distributivi, innanzitutto, economici e di mercato, di circuitazione), immaginare una strategia che ti somigli per progredire comunque, ha significato per noi in un certo senso scartare appunto di lato. Dunque deviare rispetto a una norma verticale-lineare in cui non hai modo di riconoscerti, se le logiche produttive e linguistiche consuete appaiono insufficienti, inadeguate, stagnanti.
M: Laterale per noi significa operare fuori dal consueto centro produttivo e narrativo, lavorare al massimo delle nostre possibilità nella piena convinzione di non dover accettare mai compromessi al ribasso, anteponendo la qualità e le idee a tutto il resto. Crediamo che Cinema Laterale sia processo umano intenso e autentico. Le immagini che cerchiamo vogliono essere una pura avventura da attraversare.
Quale rapporto con il contesto? Cosenza è una città che ormai da molti anni ha un Dams abbastanza affermato in quanto a ricerca e prestigio accademico…
A: Il DAMS dell’Università della Calabria (per inciso: il secondo a nascere in Italia, dopo quello di Bologna, e per la spinta soprattutto di un gigante come Maurizio Grande) vanta effettivamente un’attività didattica e di formazione di alto livello, che alle lezioni frontali, molto partecipate, integra spesso laboratori con registi, incontri, ma soprattutto ha un gruppo di ricerca estremamente attivo, profondamente immerso nel dibattito sul cinema nel presente. E anche in grado di orientarlo, di anticipare e dettare linee di riflessione, come, ad esempio, il focus sul ruolo della critica (non solo cinematografica), e l’attenzione rivolta alle tendenze più interessanti del recente cinema italiano, colpevolmente trascurato proprio da tanta critica e dalla distribuzione, ma in grado di generare una forte curiosità e attenzione nei pubblici, per quanto al di fuori del mercato e dei circuiti canonici.
Vero è che però la città soffre una sorta di scollamento tra “mondo accademico” e “mondo”, a più livelli. Intanto strutturale: l’Università sorge in una posizione un po’ dislocata, non si trova nel cuore della città, come del resto è normale per gli Atenei concepiti come Campus, ovvero piccole cittadine. A un livello più profondo, ed è il problema principale, è difficile il dialogo tra territorio cosentino e comunità accademica, anche perché non sempre l’uno è davvero in ascolto dell’altro. Di fatto è piuttosto raro che iniziative ed eventi lodevoli, spesso unici in Italia per innovazione, qualità delle proposte, nati in seno all’Università varchino i confini del Campus e di chi lo frequenta. Per quanto sia normale, poi, che ogni sapere appena nato sia alla sua origine un po’ autoreferenziale, sperimentale e condiviso solo tra addetti ai lavori, occorre che quanto si produce nelle Università divenga effettivamente cultura, cioè patrimonio condiviso e non erudizione per soli specialisti. In realtà l’“essere dislocati” dipende dal punto di osservazione: si può dire che l’Università sorge fuori e ai margini della città, oppure che ai margini dell’Università, e fuori di questa, sorge una città. Tutto sta in cosa si considera “centro”.
Ho avuto l’opportunità di vedere, tra gli altri, Ida di Giorgia Ruggiano, Ogni roveto un dio che arde di Giorgiomaria Cornelio e Lucamatteo Rossi, Dagadòl di Morgan Menegazzo e Mariachiara Pernisa, diversi approcci al reale, visioni del mondo intime e al contempo aperte alla più determinata sperimentazione, a mio avviso dentro una comune tensione verso quel che di profondamente lirico resta nel cinema.
Qual è la direzione (artistica e non solo) che vi ha spinto verso questo tipo di selezione?
A: Ci sono sicuramente lavori che incontrano il nostro comune e condiviso gusto di cinefili e cineasti, avendo affinato entrambi uno sguardo e un’idea di cinema e oggetti affini sulla base di esperienze simili. Poi, più in profondità, e prendendo in prestito un po’ le parole di Bresson quando incoraggiava i cineasti a rendere visibile quel che senza di loro non potrebbe essere visto, siamo inclini a preferire tutte quelle opere che sono per noi stessi in qualche modo inattese, dove si possa percepire quell’educarsi allo zero, quel non dar per scontato il mezzo o il linguaggio. Man mano che la selezione prende forma ci si rende conto poi che spesso le opere sembrano parlare tra loro, per assonanze e dissonanze, entrare in risonanza, fare corpo unico per quanto composto di organi e tessuti diversi.
M: Laterale è un festival autonomo e indipendente, non gode di sovvenzioni pubbliche o aiuti esterni. L’idea di creare dal basso un evento orgogliosamente decentrato, capace di mantenere anche intellettualmente una sua precipua e vantaggiosa autonomia, ha senza dubbio guidato sin dal principio i nostri intenti: far circolare visioni alternative, mettere in discussione il concetto di alta definizione, diffondere un cinema artigianale che vive della centralità delle immagini come strumento di ricerca; è nella sperimentazione sul linguaggio che cerchiamo nuove vie di fuga.
La selezione dei film in mostra, poi, deve necessariamente segnare il superamento di categorie ed etichette molto spesso vuote e arbitrarie, la cancellazione di preconcetti e pregiudizi. Il cinema si scrive solo in macchina, stando dentro alle cose che si incontrano, e nelle Selezioni Laterali si incontrano oggetti misteriosi e film irregolari, magari imperfetti, ma proprio per questo vivi e pieni di idee, lavori filmici certamente molto differenti tra di loro. Consideriamo l’eterogeneità della proposta un valore aggiunto della nostra offerta culturale, e a ben vedere, come suggerisce Antonio, non è difficile cogliere le suggestioni attraverso cui i diversi lavori sono tra di loro in aperta comunicazione. Siamo sempre stati affascinati dalle idee che i film laterali mettono in campo, dalla loro forza di divenire/ritornare pensiero.
Per esperienza diretta, Laterale mi è sembrato innanzitutto una possibilità di intervento nel tessuto connettivo, cognitivo di un panorama culturale sempre a rischio di omogenizzazione. Un tentativo avvalorato da un apparato teorico-critico raro, segno di dedizione e radicale attenzione alle opere scelte, piccoli grandi passi per smontare la retorica della crisi, quella dell’alta definizione, quella del pubblico che non va più al cinema…
Quanto, occupandosi di cinema, ci si pre-occupa anche del resto?
A: Per noi il cinema, e la proiezione in sala con tutto ciò che l’evento implica in termini di condivisione e circolazione culturale, è il punto di partenza e il punto di arrivo. Naturalmente, questo non implica fare dell’estetismo fine a se stesso, al contrario è proprio l’occasione in cui più evidentemente l’oggetto culturale è anche oggetto sociale, dunque politico, comunitario. Ed è quello, forse, “il resto” di cui occuparsi: cioè di cogliere, mettiamo, la singolarità di un lavoro, di un autore, ma al contempo riuscire a situarlo in una costellazione e in un presente di altri oggetti sociali, culturali. Quindi lavoriamo anche in questo senso, affinché ci sia dialogo tra “cinema” e “il resto”.
Ribaltando poi i termini del discorso e pensando in maniera laterale direi che ci si occupa di cinema proprio perché in qualche modo ci si pre-occupa del resto, o il resto è in qualche modo e a vari livelli “preoccupante”.
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