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Conversation

Francesco Patierno con Diva! racconta la grande Valentina Cortese, colpendo al cuore

Dopo Napoli’44 Francesco Patierno continua il suo viaggio sentimentale attraverso le bellezze della nostra cultura avvicinandosi alla figura di una delle grandi dive dello spettacolo italiano. L’incontro con Valentina Cortese diventa l’occasione di nuove comprensioni e conoscenze, favorite dalle suggestioni e dalla sensibilità messe in circolo dal dispositivo del regista. Gli abbiamo chiesto di parlarcene

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Insieme a Napoli44, Diva! potrebbe essere la seconda parte di un dittico in cui ti cimenti con il documentario creativo. In entrambi i casi non prendi in mano un soggetto preesistente per raccontarlo nel rispetto filologico delle fonti ma lo reinventi, restituendolo a una vita che probabilmente come spettatori non sapevamo neanche di conoscere nella maniera in cui tu la descrivi.

È esattamente quello che ho cercato di fare anche questa volta: ricreare per lo spettatore la stessa sorpresa di quando, approfondendo una storia che conosco a malapena, rimango meravigliato da ciò che vi scopro. Chiaramente, trattandosi di uno stato d’animo, la maniera migliore per farlo è quella di cercare di coinvolgere il pubblico dal punto di vista emotivo, evitando ogni tipo di intellettualismo.

In questo senso, la prima sequenza è indicativa di quanto appena detto. Se l’esperienza di Valentina Cortese sul set di Effetto Notte è raccontata mediante una progressione lineare della narrazione, cosi non succede per le immagini. A parte la mescolanza di materiale di diversa natura, a colpire è la coerenza tra le parole della Cortese e il tessuto visivo che al contrario si sviluppa attraverso la decostruzione iconografica dell’attrice.

Perfetto, è proprio così. È un approccio che utilizza il montaggio casuale – che poi tale non è – poiché l’accostamento di due immagini apparentemente disgiunte è il mezzo per provocare il cortocircuito emotivo che spegne il ragionamento lineare e ne accende un altro, di tipo emotivo. In questo modo induco lo spettatore a togliersi di dosso la gabbia di informazioni che si era costruito per farlo accedere a delle altre che non conosceva. È un metodo che sto affinando da anni e che era presente in Pater Familias, il mio film d’esordio, dove utilizzavo un modo di raccontare discontinuo, organizzato come un flusso di coscienza, in cui non vi era alcuna linearità se non alla fine, quando invece si profila chiaramente la presenza di un tema centrale e soprattutto di un ordine diverso da quello classico – costituito sui diversi atti della vicenda – ma impostato secondo una decostruzione che mano a mano diventa ricostruzione.

Diva! lavora sullo sguardo della spettatore nel senso che lo stimola – attraverso  alcune delle cose di cui hai parlato – a perdersi nel suo abisso visivo.

Dici bene, è proprio questo che mi interessa, e cioè che lo spettatore a un certo punto si perda dentro queste immagini, smettendo di comprenderle in maniera limitata per entrare in un universo che alla fine gli restituirà comunque una cosa compiuta. Non più una successione di immagini fine a se stessa ma una progressione visiva in grado di costruire qualcosa di compiuto e di grande.

A questo proposito, entrando nel dettaglio del tuo lavoro, colpisce per contrasto l’accostamento tra gli inserti in bianco e nero – dove la pellicola è rovinata e la luce è fioca -, con le immagini abbaglianti, e il glamour visivo dei monologhi delle attrici che impersonano la Cortese.

Ti ringrazio perché la tua analisi è il massimo che mi aspetto da una cosa del genere, poiché il mio obiettivo è proprio quello. Il lavoro è stato fatto per ottenere questo. Si tratta di una procedura meticolosa, ma non convenzionale, pensata in ragione di una logica che richiede allo spettatore di lasciarsi andare e di perdersi in ciò che vede. Se questo non succede, se non esiste questo tipo di fiducia nei confronti del film, allora  si è destinati a rimanervi fuori perché la sensazione è quella di assistere a una cosa non riuscita.

Con Napoli ’44 e adesso con Diva! riesci a mettere in pratica ciò che normalmente è destinato a rimanere teoria da manuale del cinema, e cioè togliere allo spettatore l’abitudine con cui guarda o ha guardato alla vita e alla carriera della protagonista.

Si, esattamente. Anche perché, procedendo per associazioni, il percorso del ricordo non è mai lineare: si pensa a una cosa, quella cosa produce una sinapsi e quindi vai a seguire ciò che l’ha prodotta per poi tornare indietro. Se accetti di perderti in una cosa del genere diventa tutto assolutamente fluido e sensato.

In un film come questo il montaggio diventa determinate, quindi mi fa piacere menzionare il lavoro di Maria Fantastica Valori.

C’è una bella sintonia con lei, perché non potrei fare una cosa del genere con un montatore abituato a ragionare in maniera tradizionale. C’è bisogno di un’unità d’intenti, laddove si voglia che una collaborazione produca qualcosa che va oltre la normale grammatica cinematografica. A proposito di questo, ti racconto un aneddoto di Pater Familias, che ho girato utilizzando in molte scene dei salti di campo che visivamente provocavano degli effetti molto forti. Mi ricordo che il montatore all’inizio si rifiutava di metterle insieme perché era un qualcosa che andava contro i manuali di cinema. Salvo poi diventarne il primo sostenitore, allorché ne ha capito il significato. Far saltare la grammatica, per quanto mi riguarda, non è un virtuosismo, ma un’esigenza molto forte che ho nel mio DNA. Non me lo sono imposto con un processo razionale ma mi è venuto spontaneo farlo.

 

Un’altra caratteristica del dispositivo che utilizzi in Diva! è quello di legare due sequenze tramite una terza che ha un valore subliminale, come per esempio lo è quella nella quale vediamo una figura femminile che si sta tuffando dal trampolino di una piscina.

Proprio così. Allora, guarda, a me piace lavorare con l’inconscio. Queste immagini montate tra di loro senza logica apparente permettono di avventurarsi nell’inconscio, con una procedura che sul momento si stenta a capire, ma che è destinata a produrre comunque uno sbandamento positivo. Dico questo poiché ad arrivare nella maniera più profonda sono concetti altrimenti impossibili da recuperare in maniera razionale, ed è per questo che diventano subliminali.

Agganciandomi a ciò che hai appena detto e a costo di sembrare di parte, non posso non citare la sequenza in cui a svolgere la funzione di cui parlavi sopra è l’immagine del cielo e poi quella del campo di grano. L’effetto che producono è emotivamente sublime.

Quello che hai appena ricordato è il momento del film che mi commuove di più, perché sono immagini che perdono qualsiasi significato intellettuale per diventare simboliche e cariche della potenza tipica del paesaggio naturale. È come guardare un mare in tempesta di fronte al quale è impossibile rimanere impassibili e non emozionarsi.

A proposito di emozioni, un altro espediente che utilizzi per suscitarle è quello di commentare le immagini d’epoca con la musica elettronica. Non lo fai sempre ma quando succede questo produce un vero e proprio shock emotivo. 

No, perché sarebbe scontato e ripetitivo, deve essere sempre una sorpresa per cui bisogna dosare questi momenti.

Il legame che stabilisci tra le parole dell’attrice e i film da lei interpretati vuol significare che nella dimensione della Cortese arte e vita si rincorrono continuamente?

Allora ti dico una cosa: ogni volta che faccio un film e lavoro con gli attori è incredibile come quelli più importanti riescano a mettere dentro le storie elementi della vita privata che in qualche modo combaciano con il narrato, innescando un processo di fusione tra realtà e finzione che diventa un groviglio molto strano e difficile da sciogliere. Nel caso della Cortese ho creato apposta dei link dove, per esempio, nel momento in cui scopriamo che lei è stata adottata c’è la sequenza in cui la Cortese stessa interpreta la giovane che viene data in affidamento a una famiglia di contadini, a testimonianza di come in ogni film da lei interpretato ci sia un pezzo della sua vita privata che si inserisce all’interno di una storia di finzione. Da qui si capisce come un attore alla fine non faccia altro che interpretare anche se stesso.

Una parte del film è occupata dai monologhi dalle varie attrici che interpretano la Cortese. Nella recensione ho parlato di un meccanismo simile, e allo stesso tempo opposto, a quello utilizzato da Haynes in Io non sono qui. Mi interessava la scelta della location di queste scene e avere la conferma che le stesse dovevano creare una sorta di non luogo. 

Esatto. Non mi interessava avere della imitazioni della Cortese, perciò ho chiesto alle attrici di lavorare di pancia e di pensare a lei come donna e non come artista. La scelta di averne otto deriva sempre dalla natura del dispositivo e quindi dalla volontà di risalire al tutto partendo dalle singole parti e quindi dalla frammentazione del corpo del personaggio.

Quindi la location e anche la recitazione anti-naturalistica ti permettono di rappresentare della Cortese il suo essere attrice e, per ciò che dicevamo sopra, il suo interpretare se stessa. 

Si, anche perché se la forma delle location avesse ricordato qualcosa della Cortese sarei caduto in un didascalismo francamente stonato con il resto della messinscena e in contrasto con la volontà di fare dello sfondo una sorta di luogo della mente. Tieni conto che ogni attrice recita all’interno di uno spazio proprio, diverso dalle altre. Anche questo è un indizio che rivela la scelta di cui ti ho appena detto.

Le attrici sono molto brave. Volevo chiederti qual è stato il criterio di selezione?

Il criterio era ovviamente la diversità. Non miravo a innescare un processo di finzione oppure a favorire dei collegamenti tra di loro. Al contrario, l’idea era quella di prendere attrici con personalità diverse e abituate a lavorare alla propria maniera e di metterle insieme senza nascondere le loro differenze. L’accostamento tra una parte e l’altra doveva essere stridente, quasi violento ma sempre teso a costruire un’emozione particolare.

Guardando alla tua carriera, a saltare all’occhio è l’eclettismo delle tue scelte. In breve tempo, infatti, hai toccato forme cinematografiche di diversa natura. Volevo chiederti di che natura è il filo rosso che attraversa questa eterogeneità?

Guarda, ci ho pensato qualche giorno fa, perché anche io mi sono chiesto cosa producesse la scelta di seguire una storia anziché un’altra. Inconsciamente, penso di aver sempre saputo che il linguaggio delle serie televisive e, in particolare, la loro drammaturgia erano più vicine al mio modo di narrare, nel senso che non mi interessa tanto raccontare una storia tradizionale, quanto descrivere l’arco drammaturgico di un personaggio: preferisco, cioè, raccontare storie di uomini e donne più che le storie in sé. In questo senso in ogni film ci sono le vicende di un protagonista preso in un determinato momento della sua vita e raccontato in modo che nel finale arrivi a essere una persona diversa da come era prima.

Senza entrare nel dettaglio, volevo sapere se, con il tuo prossimo film, continui a lavorare nella direzione intrapresa con Napoli ’44 e Diva! oppure ci sarà un cambiamento?

Sono appena uscito dalla proiezione del film che ho finito di montare qualche giorno fa e che continua a lavorare sul tipo di linguaggio utilizzato nei mie due ultimi lavori, mentre a fine estate dovrei consegnare la sceneggiatura di un lungometraggio di finzione da girare a cominciare dal mese di Ottobre.

  • Anno: 2018
  • Durata: 75'
  • Distribuzione: Officine UBU
  • Genere: biografico
  • Nazionalita: Italia
  • Regia: Francesco Patierno
  • Data di uscita: 07-June-2018

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