Questa del Festival di Cannes può veramente essere considerata, e i segnali sono tanti, un’edizione che valorizza le donne e le loro cause, le più evolute, come quelle per la parità al salario e contro le molestie sul lavoro, e le più basilari, relative al diritto allo studio, alla libertà personale e sentimentale delle donne. Anche l’atteso film di Jafar Panahi selezionato nella competizione ufficiale a Cannes, Se roch, affronta questo tema, con tutta la forza che gli consente l’obbligo di interdizione dalla regia, dalle sceneggiature e dall’uscita dall’Iran per 20 anni (dopo aver subito la prigione e il processo, per l’accusa di propaganda contro il governo iraniano), o forse trovando proprio in questo la sua ispirazione.
Se roch si apre con la drammatica sequenza, ripresa con un cellulare, di un appello disperato affidato all’etere da una giovane ragazza di un villaggio sperduto delle montagne intorno a Teheran, in procinto di suicidarsi dentro una grotta con una corda al collo: l’appello è rivolto a una celebre attrice iraniana di serie TV, Jafari Benhaz, e al nostro regista Jafar Panahi, perché, nonostante i ripetuti tentativi di contattare i due artisti e non essendovi riuscita, sarà costretta a rinunciare alla borsa di studio vinta per il conservatorio a Teheran, dopo una durissima seleziona e a sposare uno sconosciuto, lasciando così la vittoria all’ignoranza dei maschi di famiglia e alla discriminazione della società. Dunque, sembra dire il regista, “o arte e libertà, o morte”, e questo grido parte dai giovani e dalle donne non ancora omologate a un sistema che tiene tutti sotto scacco, nasce dal desiderio di cambiamento e dal perseguimento delle proprie aspirazioni di tante persone, non solo dai registi ed artisti come lui.
Panahi stesso recita nella pellicola insieme all’attrice Benhaz, entrambi nel ruolo di se stessi, partiti in viaggio alla ricerca della ragazza del video per scoprire se è viva o morta, tra senso di colpa e ineluttabilità degli eventi, col dubbio di uno scherzo o di una trappola. I magnifici paesaggi delle montagne iraniane, il misto di ospitalità, tradizionalismo, credenze popolari e destino del suo popolo, la sorte misera delle donne (e comunque la miseria di tutti, spirituale e materiale) vengono evidenziati senza apparente commento dal regista, capace di toccare le corde profonde dei personaggi con inquadrature su volti e luoghi, soffermandosi sui particolari ed entrando con ironia, grazia e commozione nelle narrazioni profonde e misteriose di una terra tanto antica e sofferente. Stupendo il cameo dell’anziana artista e ballerina che vive nel paese, emarginata e sola, scrivendo poemi e dipingendo alberi. Tra i premi vinti da Jafar Panahi (che riesce comunque a girare e a far uscire i suoi film dal Paese) vale la pena ricordare: la Caméra d’or a Cannes per Le Ballon blanc (1995), il Leone d’oro a Venezia per Le Cercle (2000), il premio Un certain regard a Cannes per Sang et or (2003), l’Orso d’argento a Berlino per Hors Jeu (2006) e l’Orso d’oro per Taxi Téhéran (2015). Anche quest’anno il regista è stato invitato invano dal Festival che cerca di intercedere presso le autorità iraniane.