In questo breve saggio non vogliamo solo segnalare il senso per la commedia del regista Alessandro Aronadio, a tal fine basta guardare i suoi godibilissimi film. Quello che ci interessa è qualcosa d’altro, ovvero far emergere il tenore filosofico del suo cinema. Non si tratta tanto di individuare nelle trame contenuti o problemi che genericamente potrebbero venir chiamati ‘filosofici’. In questo senso non sono film filosofici. Inoltre in questi film la filosofia non viene messa in commedia, cioè presa in giro e dileggiata, presentando la figura del filosofo in modo caricaturale e la sua ricerca di senso in modo ridicolo. Non si prende in giro la filosofia così come Aristofane nella sua commedia Le Nuvole prendeva in giro Socrate. Non è in gioco nemmeno la filosofia – e la ricerca di senso in cui essa sembra consistere – nella sua tonalità tragica ed esistenziale per cui l’arte non potrebbe far altro che metterci di fronte al naufragio o allo scacco esistenziale. Qui per l’appunto non si tratta di tragedie bensì di commedie. Commedie che non hanno per tema grandi o piccoli enigmi filosofici, magari da sbeffeggiare insieme ai filosofi (specie in via d’estinzione) che se li pongono e ce li propongono.
Il tenore filosofico di questi film sta tutto nel punto di vista: la nostra tesi è mostrare come il regista guardi ai suoi bizzarri eroi da quello che potremmo chiamare in prima approssimazione un punto di vista filosofico. Se così è, la prima domanda che ci dobbiamo porre sarà: come un filosofo guarda al mondo? Cosa caratterizza un punto di vista che si voglia filosofico? Lo sguardo del filosofo non è uno sguardo da fuori, non è uno sguardo da nessun luogo, per cui il mondo si presenterebbe al filosofo, e quindi a noi, come una specie di grande affresco, già dotato di senso e bellezza, che il filosofo dovrebbe solo descrivere nelle sue parti e nel suo insieme così da poterne contemplare la generale armonia mostrandola agli altri. Lo sguardo del filosofo è sempre uno sguardo dislocato all’interno di quel mondo che è l’orizzonte da cui si sente ricompreso e che proprio per questo suo starci dentro non riesce a vedere nella sua totalità. Ora questo fatto (l’essere innanzitutto prima dislocato dentro un orizzonte che lo ricomprende) per il filosofo non è un limite bensì un’opportunità. Se questa è la situazione (il suo punto di vista è sempre situazionale), il filosofo per porre le sue domande e cercarne le risposte non può non guardare al mondo in una maniera strana e paradossale.
Qui è il caso di parlare del particolare strabismo che caratterizza lo sguardo del filosofo: il filosofo guardando alle cose del mondo nello stesso tempo cerca di guardarsi guardare. Questo suo strabismo lo rende in qualche modo se non buffo almeno un po’ comico. Abbiamo accennato ad Aristofane, ma potremmo pensare al famoso aneddoto di Talete (secondo la tradizione il primo filosofo) e della servetta trace. Talete passeggiava con la testa tutta rivolta al cielo notturno per contemplare e cercare di capire il movimento degli astri quando, non accorgendosene, cade in una profonda buca. A quel punto si sente sfottere da una servetta trace: “Talete! Talete! Come puoi presumere di capire il movimento degli astri se non sai nemmeno dove metti i piedi??!!”.
Molto probabilmente – fa giustamente notare Gadamer – Talete non era inciampato e caduto nella buca profonda, ma vi si era collocato per schermare le luci della città e così poter meglio contemplare il cielo stellato. Questo atteggiamento del filosofo spesso suscita un ridere stolto (lo stesso Hegel relativamente all’aneddoto che abbiamo appena evocato ricordava che Talete era un grande filosofo mentre la servetta trace aveva appunto un cervelletto da servetta trace), ma esprime bene l’incomprensione a cui va incontro il modo – strano e deviante – in cui il filosofo si pone rispetto alla realtà.
Tuttavia non è Talete, bensì Socrate colui che può mostrarci (anche se non dimostrarci) l’interna paradossalità che caratterizza lo sguardo del filosofo. Innanzitutto per lui la filosofia non è un sapere ma un’attività. Da questo punto di vista è significativo il fatto che Socrate non abbia mai fondato una scuola, né abbia mai scritto libri. Questo ci dice che la filosofia non è un sapere tra gli altri, ma è la stessa messa in questione di ciò che si presume di sapere, pur nella consapevolezza di non poter fare a meno del sapere, né dell’essere collocati in un sapere. Tutto questo è ben significato dallo stesso termine “filosofia”, che non significa sapere (uno fra gli altri, uno fra i tanti), bensì amore per il sapere. Qui però non vogliamo tanto insistere sull’interna erotica che attraversa la ricerca filosofica e in cui alla fin fine la filosofia consiste; vogliamo solo sottolineare la paradossalità dello sguardo del filosofo.
Uno sguardo che mentre guarda vuole guardarsi guardare – abbiamo detto. Questo strabismo del filosofo porta lo stesso filosofo a ironizzare su di sé. Qui però non si tratta di un’ironia acida che vuole mettere alla berlina la prosopopea di chi crede di sapere o si crede sapiente. É innanzitutto – oltre a essere il metodo stesso della filosofia (basti pensare appunto all’ironia socratica) – un’auto-ironia. Il filosofo proprio nel momento del suo ripiegarsi su se stesso si apre al mondo (e viceversa) e per questo appare buffo prima di tutto ai suoi stessi occhi. Il filosofo non ha la serietà di chi si crede detentore di un sapere (e quindi di un potere), né ha la frivolezza di chi proprio non ne vuole sapere di sapere. Né serietà, né frivolezza, bensì ironia.
Ma che tipo di ironia? Non un’ironia soggettiva (alludiamo all’ironia romantica criticata aspramente da Hegel) in cui il soggetto indebolisce l’oggettività e serietà della cosa su cui esercita il suo caustico e pungente punto di vista al solo fine di riaffermare se stesso e la propria soggettività. Per quanto riguarda la filosofia, così come la stiamo intendendo in questa sede, bisogna, invece, parlare di un’ironia oggettiva, anch’essa molto strana: un’ironia che sta nelle cose più che nel soggetto. Se l’ironia (nel senso di antifrasi) sta nel dire una cosa alludendo a un’altra, allora il punto di vista filosofico non potrà essere che ironico perché il filosofo dice quello che dice per dire qualcos’altro che direttamente sarebbe difficile se non impossibile da dire. Ecco l’ambiguità del dire del filosofo che deve dire ciò che non si può dire, e che pure deve essere detto, per poter dire ciò che diciamo. Un indicibile che si può dare soltanto grazie al dicibile. Il punto di vista filosofico, infatti, non è quello della mistica con i suoi estatici silenzi.
Se riguardo al modo di guardare del filosofo abbiamo parlato di strabismo, riguardo al suo modo di parlare dobbiamo parlare non solo di ironia (un’ironia oggettiva che fa tutt’uno col rigore della ricerca filosofica) ma di paradosso. Ora potremmo considerare il grottesco come il corrispettivo in estetica di ciò che in logica si chiama paradosso. Allora la figura del filosofo non può non apparire grottesca. Infatti, il grottesco sta sul limite tra visibile e invisibile, tra dicibile e indicibile, insiste sul limite, pone sotto pressione il limite non solo per volontà di sberleffo, ma perché tenta di cogliere quelle che sono le stesse condizioni di possibilità del darsi del visibile e del dicibile, condizioni che per essere tali non possono essere semplicemente dette o rappresentate se non accettando di correre il rischio di eccedere i confini del dicibile e del rappresentabile, così dando luogo a effetti (deformanti) grotteschi e tragicomici, dove la tragedia e insieme la commedia stanno appunto nel prendere atto del fallimento (tragico e comico insieme) di ogni nostro tentativo di fuoriuscire dal dicibile e dal visibile per dire l’indicibile e rappresentare l’invisibile. In questi paradossi sta e cade quello che qui vogliamo chiamare la commedia del senso, un senso che continuamente si rovescia nel nonsenso e che fa della nostra stessa ricerca di senso – che di questi paradossi è consapevole – una parodia. Tuttavia qui il termine parodia ha un senso fondamentalmente positivo e critico rispetto alla seriosità di tanto pseudo-esistenzialismo che ha il difetto di essersi preso troppo sul serio fino al punto da diventare retorica vuota e posa studiata.
Detto questo, finalmente possiamo affermare che nel cinema di Aronadio non abbiamo notato solo il suo senso della commedia; infatti, vogliamo affermare che nei sui film, in qualche modo (un modo molto personale e convincente), è in gioco quella che abbiamo appunto chiamato la commedia del senso.

Cominciamo ora a considerare più da vicino i suoi due ultimi film, Io c’è e Orecchie, partendo da quest’ultimo. In questo bel film del 2016, cui hanno partecipato tra gli altri Pamela Villoresi, Piera Degli Esposti, Milena Vukotic e Rocco Papaleo, il protagonista (un convincente Daniele Parisi) si sveglia avvertendo un forte fischio alle orecchie. Sul frigorifero la sua compagna gli ha lasciato un messaggio relativo al funerale di un suo caro amico di cui lui non si ricorda; così inizia la giornata di un uomo infelice e confuso che rimane un po’ disorientato di fronte a quella che a lui sembra la follia del mondo. Solo alla fine della sua insensata giornata il suo sguardo triste e risentito sul mondo sarà illuminato dalla luce di un’intuizione improvvisa. Ma procediamo con ordine.
Il protagonista è un metafisico – noi qui vogliamo differenziare il metafisico dal filosofo. Il metafisico tende a guardare il mondo dal di fuori, da nessun luogo e la sua prospettiva sulle cose è una prospettiva a volo d’uccello. Il filosofo, invece, è colui che, in qualche modo, ha la consapevolezza dell’aspetto internamente paradossale dello suo sguardo, per cui il filosofo stesso sta insieme dentro e fuori il mondo (per riprendere una espressione cara al Merleau-Ponty de L’elogio della filosofia).
Il protagonista, dicevamo, da buon metafisico (egli è un laureato in filosofia), cerca il senso della vita come se fosse qualcosa che si trovi dietro di essa (la sua essenza, il suo principio); ma così facendo non vive la sua vita o la vive sotto il segno di una fondamentale frustrazione e depressione. Inoltre – proprio perché guarda dal punto di vista di chi cerca il senso della vita come qualcosa che sta dietro o aldilà della vita stessa – non riesce a vivere la sua vita e ad accettare l’assurdità del mondo e l’insensato comportamento di chi non è angosciato come lui da questa sua ricerca di senso. Egli è un nichilista passivo che di fronte all’assurdità del mondo reagisce risentito non riuscendo ad abbandonare il suo atteggiamento ‘metafisico’ nei confronti dell’esistenza.
Il protagonista è ammalato e la sua malattia si chiama metafisica. Se finora in questo nostro articolo abbiamo messo in evidenza il punto di vista della metafisica come sguardo dal di fuori, ora dobbiamo vedere come la stessa metafisica concepisca quella che abbiamo chiamato ricerca di senso. La metafisica concepisce tale ricerca come se il senso delle cose (e non solo dell’esistenza) fosse dietro le cose. Questo atteggiamento filosofico porta a porre la questione del senso della vita nei termini di una dialettica tra vita autentica e vita inautentica, prospettiva che come vedremo rende la vita stessa invivibile. Infatti, soltanto nella prospettiva di un senso che non c’è, ma che è posto come al di là o come di là da venire, la vita può apparire come inautentica. La vita inautentica di per sé non può essere vita fino in fondo consapevole di sé perché se lo fosse, in un modo o nell’altro, già non sarebbe più vita inautentica, ma si aprirebbe alla ricerca di senso dell’uomo.
Allora in un primo momento la vita che conduciamo ci si rivela come inautentica (inappropriata rispetto a quella che è la nostra natura cioè quella di non avere una natura – nell’uomo, diceva già Sartre, l’esistenza precede l’essenza) solo all’interno e dal momento in cui si attua una ricerca di senso. Solo se ci poniamo in tale prospettiva la vita ci si può rivelare come insensata; ma l’insensatezza della vita può manifestarsi anche in tutt’altro contesto e con un valore tutt’altro che negativo – lo vedremo. Ora il nonsenso della vita ci si rivela solo a partire da una ricerca di senso; noi qui riconosciamo il nonsenso della vita a partire dal senso.
Comunque sia, la nostra vita ci si rivela insensata a partire da un’anticipazione di senso (l’idea di una felicità promessa), oppure a partire da un’anticipazione di nonsenso (vedi l’essere-per-la-morte di Heidegger). Comunque sia, la nostra vita quotidiana ci si può rivelare come insensata in senso negativo (visto che dovremo più in là prendere in esame non solo un senso positivo di intendere l’insensatezza ma anche un nonsenso in quanto positivo) solo dal punto di vista di…, ovvero solo in prospettiva (per Heidegger, per esempio, in vista della morte). Allora chi scopre l’inautenticità della propria vita lo può fare solo se (con l’immaginazione e col pensiero) si scosta dal piano d’immanenza della vita quotidiana per fissare un punto nel futuro – futuro che non è meno futuro anche se, invece di condurre al senso come salvezza, conduce al nonsenso come nulla – in prospettiva del quale (ma qui dovremmo piuttosto parlare di un movimento retrospettivo) riordinare il proprio passato. La vita può essere pensata (non dirò sentita – che è tutt’altra questione che qui toccheremo solo implicitamente) inautentica cioè insensata (nel senso negativo del termine) solo a partire da un’anticipazione di senso, anche se questo senso non fosse altro che mancanza di senso.
Qui vogliamo solo sottolineare la cosa seguente: l’insensatezza della vita (nel senso negativo del termine) si può cogliere solo in un orizzonte temporale per cui la vita può essere colta nella sua insensatezza solo come colpa e nella prospettiva di una qualche redenzione (ossia in vista di un senso foss’anche la mancanza di ogni senso). Ma c’è un altro modo di cogliere l’insensatezza della vita, un modo che si smarca e ci smarca dalla dialettica di vita inautentica-vita autentica; dialettica che rende la vita invivibile perché sempre la intrappola nel rimando incrociato del senso al nonsenso e del nonsenso al senso, rimando che rende la vita invivibile proprio perché riposa non sull’equivalenza tra senso e nonsenso bensì sulla subordinazione del nonsenso al senso.
Una vita come inautentica (come se ce ne fosse un’altra attigua a questa la quale sarebbe vita autentica) può essere colta solo una volta che si sia dischiuso l’orizzonte in cui una ricerca di senso possa avvenire e dispiegarsi. Il mondo appare insensato per chi continuamente ricerca il suo senso come se fosse nascosto dietro le cose. Tuttavia un senso deve pur esserci se noi possiamo almeno constatare il nonsenso delle cose del mondo!! Non dimentichiamo il paradosso in cui cadono inconsapevolmente molti esistenzialisti della prima ora quando credono di attestare l’insensatezza del mondo semplicemente affermando: “Il mondo non ha senso” – così affermando non si avvedono del fatto di esprimere in una proposizione sensata il nonsenso del mondo. Più scaltri di loro sia Nietzsche che Wittgenstein affermano: “Fino a quando esisterà la grammatica esisterà Dio”. Questo per dire che afferrare cosa sia in gioco nella nozione di “nonsenso” non è affatto facile.
Ripetiamolo: per cogliere (nella rappresentazione o col pensiero) l’insensatezza del mondo dobbiamo guardare al mondo dal punto di vista di una ricerca di senso e questo ci inquieta perché così il mondo ci si rivela nella sua insensatezza; e noi vivremo questa insensatezza – come dire? – sempre in maniera risentita perché essendo insensata essa è priva di quel senso che invece cerchiamo; allora la nostra prospettiva sulle cose è inevitabilmente falsata proprio perché è una prospettiva. Qui senso e nonsenso sono due facce della stessa medaglia: non posso cogliere il non senso del mondo se non in vista di un senso. Tutto ciò invece che inquietarmi potrebbe portarmi alla serenità di chi afferma che dobbiamo accettare il fatto che le cose non abbiano senso perché il senso è Dio. In tal modo sembra che noi si possa accettare una vita insensata e inautentica in maniera pacificante e pacificata eppure… il nonsenso così accettato sarebbe pur sempre un nonsenso da intendere in senso negativo (scusate il bisticcio del tutto volontario).
Prima di considerare in che senso parliamo di un nonsenso in senso positivo (ritorna il bisticcio per il quale, se il senso si rovescia continuamente nel nonsenso e il nonsenso si rovescia continuamente nel senso, allora, se qualcosa fa senso, fa senso perché deve fare senso – qui il riferimento ovviamente è a Emilio Garroni), dobbiamo tornare a considerare il passaggio dalla vita inautentica alla vita autentica. Ora – come abbiamo detto – la vita autentica non è semplicemente un’altra vita rispetto alla vita inautentica che sia soltanto a essa affiancata o giustapposta. In un certo senso vita inautentica e vita autentica sono la stessa vita. Il passaggio dall’una all’altra assomiglia molto più a un salto piuttosto che a un transitare ovvero richiede un decidersi.
Questa concezione della vita autentica riposante sulla decisione, vista come passaggio (salto) dalla vita inautentica alla vita autentica, finisce in una concezione di tipo ancora volontaristico e resterebbe comunque al livello solo formale di una scelta che in fondo consiste in uno scegliere di scegliere; mentre noi a proposito del protagonista del film di Aronadio non abbiamo parlato di scelta o decisione piuttosto abbiamo parlato di unìilluminazione.
Solo alla fine della sua insensata giornata – dicevamo – lo sguardo triste e risentito sul mondo del protagonista sarà illuminato dalla luce di un’intuizione improvvisa. Cosa è successo? In prima battuta dobbiamo dire che egli non ha trovato il senso perduto. La sua illuminazione non consiste nel disvelarsi definitivo del significato del mondo o del senso profondo delle cose. Il nostro eroe tragicomico non trova il senso ultimo del tutto; il mondo che lo circonda resterà insensato. La sua assomiglia piuttosto a un’illuminazione di tipo zen, per cui il problema del significato dell’esistenza si risolve nel dissolversi del significato dell’esistenza come problema. In fondo, il film racconta la storia di una guarigione di cui non si dà storia proprio perché è un’illuminazione e una guarigione che si dà fuori da quell’orizzonte temporale in cui solo una ricerca di senso ancora metafisicamente intesa può darsi.
Guarire qui non significa poter guardare finalmente il mondo è riconoscerlo sensato. In verità nel film non si dà nessuna redenzione finale per cui tutto il nonsenso dell’esistenza venga in qualche modo riscattato dal significato come se un tale significato all’ultimo e come ultimo occupasse tutta la scena. Se al termine del film un tale significato ultimo si installasse sulla scena non ci sarebbe più spazio per altro (senso) e per altri (i buffi e improbabili personaggi che il protagonista incontra nel corso della sua giornata). Ma il senso ultimo non si dà, non accade! La scena rimane vuota e proprio per questo il protagonista e i suoi strani compagni di viaggio si possono accampare sul suo sfondo.
Solo alla fine il protagonista guarisce dalla malattia metafisica, venendo così riconosciuto dagli altri e riconoscendo gli altri a sua volta senza più pretese, abbandonando il suo atteggiamento giudicante che derivava dal punto di vista da lui assunto nei confronti del mondo; il punto di vista di chi ricerca il senso come qualcosa che sta dietro il mondo; un punto di vista che è a un tempo superbo e invidioso: superbo perché porta a giudicare gli altri che sono da condannare per il solo fatto di sembrare disinteressati alla questione del senso; invidioso, perché porta ad avere un atteggiamento risentito nei loro confronti e nei confronti della vita – una vita vivente – che vivono perché essi hanno pur sempre accettato di vivere comunque la vita anche se nella sua insensatezza.
Il protagonista si rimette dalla sua malattia passando da un nichilismo passivo (che guarda con risentimento, invidia, superbia a chi semplicemente vive la vita) a un nichilismo attivo (per dirla ancora una volta con Nietzsche). Finalmente può accettare (con una gioia un po’ frastornata – comprensibile in uno che è ancora convalescente) l’assurdità del mondo non con rassegnazione e senza rancore perché ha capito che il senso si può dare solo nel nonsenso.
Il suo dire “Sì” al mondo, pure nel suo nonsenso, non è una sconfitta, ma una vittoria. Così diventa almeno possibile cominciare a vivere una vita felice anche se si tratta di una felicità non totalizzante (il fischio alle orecchie rimane). Veramente felice, infatti, non è chi ha trovato il significato dell’esistenza, ma chi dice “Sì” all’esistenza a prescindere dal suo significato. Solo aprendosi coraggiosamente e gaiamente al nonsenso del mondo ci si mette nella condizione di poter coglierne il senso.
Dopo il convincente e divertente Orecchie, Alessandro Aronadio ci riprova firmando la regia di Io c’è, una brillante parodia di quel mercato delle religioni a cui sembra mettere capo la temperie post-moderna in cui attualmente viviamo. La sua, però, non è una livida accusa alla pseudo-religione nichilistica del consumo, che vede nei centri commerciali i suoi templi; infatti, il regista cerca di mettere in atto una diversa strategia non tragica, bensì tragicomica senza, però, che il fare umorismo sulle cose sante diventi mai irrispettoso oppure insultante. In Aronadio, quindi, non si dà né un’apologia, né una denuncia della religione ai tempi della società dei consumi, piuttosto vi è in gioco il chiasmo (una croce) tra una mercificazione della gloria e una glorificazione della merce (il riferimento qui è a Jean Baudrillard); chiasmo dal quale – anche se suo malgrado nel caso del protagonista di Io c’è – emerge il corpo glorioso del divo (alludiamo come si sarà capito alla gigantografia di Massimo che campeggia sul finale del film). Ma procediamo con ordine.
Massimo (Edoardo Leo), affiancato da sua sorella (Margherita Buy) e da un intellettuale poco credibile (Giuseppe Battiston), decide di inventarsi una nuova religione così da adibire il suo bed & breakfast in declino a luogo di culto in modo da riscattarne le sorti, evitando di pagare le tasse – ma il gioco gli prende la mano, e quello che doveva restare una finzione e un inganno comincia a produrre effetti di senso inaspettati.
A nostro modo di vedere il film non si limita solo alla denuncia seppur ironica dell’attuale mercificazione del sacro, ma ci mette di fronte – come dicevamo – a qualcosa di molto più interessante che potremmo chiamare sacralizzazione della merce. Qui non stiamo alludendo soltanto al feticismo delle merci di cui parla Marx ne Il Capitale, ma al sorprendente ripresentarsi, in un contesto mercificato, di dinamiche che potremmo considerare religiose che vanno al di là della fascinazione nichilistica per la merce. Oggi è sorprendente come esperienze religiose sensate possano emergere da e in contesti del tutto e in tutto mercificati, dove vige la legge del denaro che come equivalente universale toglie valore a tutto proprio perché dà un prezzo a tutto, anche ai valori religiosi che così sono anch’essi mercificati. In fondo è quello che sorprendentemente avviene nel film di Aronadio. Infatti, quella che all’inizio voleva essere una strumentalizzazione della religione alla fine si rivela come una religione possibile anche se ai tempi della “morte di Dio”. Anche in questo film di Aronadio assistiamo – in maniera che ci sorprende perché inaspettata – all’emergere di un qualche senso da un contesto completamente insensato. Non si tratta di contrapporre magari assumendo toni tragici vita autentica e vita inautentica, sacro e profano, merce e valori, senso e non senso, proprio perché è solo nel nonsenso che oggi si può dare unìesperienza di senso – anche se non del senso, almeno di un senso.
Solo un’ultima considerazione. La religione fondata da Massimo si chiama Ionismo e mette al centro non tanto Dio quanto l’io di ognuno. Su questo solo un appunto: la soluzione del problema del significato dell’esistenza non si trova centrandosi narcisisticamente sul proprio io, bensì sta tutta nel liberarsene.