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Oliver Stone al Lucca Film Festival 2017

Sabato il Lucca Film Festival e Europa Cinema 2017 ha avuto l’onore di ospitare un regista che non ha certamente bisogno di presentazioni: Oliver Stone

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Sabato il Lucca Film Festival e Europa Cinema 2017 è arrivato alla sua settima giornata di programmazione e ha avuto l’onore di ospitare un regista che non ha certamente bisogno di presentazioni: Oliver Stone.

Il regista premio Oscar ha tenuto una lezione di cinema presso il Teatro del Giglio di Lucca incantando il pubblico accorso per oltre un’ora e mezza.

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Il Teatro del Giglio è un teatro legato alla musica e, in particolare alla lirica dato che il grande Puccini ha qui diretto e dato vita a molte sue opere. Che rapporto ha Oliver Stone e il suo cinema con la musica?

Questo è un teatro meraviglioso e mi ricoda molto il Globe di Londra. Alexander è un film che assomiglia un po’ a un’opera, con drammi e musiche composte da Vangelis, che è un genio, in maniera simile a Ennio Morricone con cui ho avuto l’occasione di lavorare per il film U-Turn. Non siamo andati molto d’accordo ma questo non ha intaccato il processo creativo.

Così come spesso ho lavorato con dei compositori, altre volte non avevamo una colonna sonore originale come, ad esempio, per Assassini Nati. Non seguo mai regole precise: non ho una formazione musicale,  ma so cosa mi piace e quello che funziona. Nei documentari l’approccio è ancora diverso, dovendo la musica mettere lo spettatore nel giusto mood.

Ho lavorato con Georges Delarue per Salvador che ha dato un tocco magico al film. Un film molto interessante dal punto di vista musicale è stato Ogni maledetta domenica poiché in quel caso ho lavorato con cinque diversi compositori ed è stato un bel gioco d’equilibrismo. Per la colonna sonora di Snowden ho cercato una musica che sottolineasse la razionalità e l’essere riservato e introspettivo del protagonista.

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Lei è anche un grande sceneggiatore, come è nato il suo rapporto con la scrittura?

Ho sempre amato scrivere grazie soprattutto a mio padre che, quando ero piccolo, mi dava 25 centesimi ogni settimana per scrivere un breve soggetto, ad essere onesti lo facevo per potermi comprare i fumetti. Sono molto grato a mio padre per avermi ispirato e avermi insegnato una disciplina. Scrivere è un’espressione dell’anima, vivo un sacco dentro la mia testa e nei miei pensieri ma provo sempre ad esteriorizzarmi. L’esperienza nell’esercito mi ha insegnato ad uscire da me e confrontarmi con la realtà. La scrittura è vita e nonostante la censura è l’unico modo per rivendicare la nostra libertà.

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Lei ha lavorato con il produttore Dino De Laurentiis, ci vuole parlare del vostro rapporto e di cosa pensa del cinema italiano?

A lui devo il mio più grande successo e quattro cause legali, era davvero difficile relazionarcisi e non era certamente il più onesto dei produttori. Mentre stava producendo L’anno del dragone di  Michael Cimino, che avevo scritto io, Dino opzionò i diritti della sceneggiatura di Platoon. Era il 1984 e io avevo già iniziato la preproduzione del film individuando delle possibili location e facendo dei casting quando mi disse che non c’erano soldi per realizzare il film e non mi restituiva però nemmeno la sceneggiatura.

Ero un giovane sceneggiatore con poca reputazione e potere, avevo scritto Fuga di mezzanotte, lui adorava Michael e mi stava rubando una sceneggiatura! Quando L’anno del dragone stava per uscire andai in tribunale su indicazione del mio avvocato. Per paura di ripercussioni negative sul suo film, mi ridette la sceneggiatura e due anni dopo feci Platoon, ma nonostante questo è riuscito a fottermi altre tre volte! Una volta mi chiese di collaborare per realizzare un film sulla Bibbia, ma io gli dissi che non mi fidavo più di lui.

A prescindere dal mio rapporto burrascoso con Dino, io amo il cinema italiano: è molto diverso dal nostro. er me è il più sensuale, mistico e che da da sognare pur avendo una grande tradizione neorealista . Basta pensare a Fellini, Antonioni, Risi e soprattutto Bernando Bertolucci: avrò visto almeno dieci volte Novecento. La TV ha certamente rubato molte risorse: realizzare un film come L’ultimo Imperatore sarebbe impensabile oggi.

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Vuole parlarci del tuo lavoro di sceneggiatore per Scarface?

Avevo incontrato Al Pacino quando stavo lavorando a Nato il 4 luglio e lui voleva fare Scarface dopo aver visto il film con Paul Muni. Io entrai in corso d’opera,  e stavano mettendo in piedi un classico gangster movie. Io non volevo farlo: c’era già stato Il PadrinoSidney Lumet era allora il regista e io suggerii di ambientarlo a cuba. Dopo poco Lumet abbandonò il progetto poiché lo riteneva troppo violento e alla regia subentrò così Brian De Palma e, pur essendo molto motivato, Brian  non aveva abbastanza energie per farlo e le riprese invece di 3 mesi durarono 6: ci furono un sacco di problemi e il film costò un sacco.

Venne subito apprezzato e amato dalle persone di colore e dagli ispanici. I bianchi e i critici in particolare, invece all’epoca, non lo capiro e il film fu un mezzo fallimento. Col tempo ha iniziato a diffondersi e a farsi notare e, curiosamente, venne apprezzato dalla gente di Wall Street per i soldi e per la coca, cioè per i motivi sbagliati. E pensare che io volevo scrivere un dramma, un’opera  shakespeariana un po’ alla Riccardo IIIScarface fu il motivo per cui feci poi Wall Street perché il paese stava cambiando e Wall Street stava cambiando, adottando l’etica dei soldi facili. All’epoca avevo problemi, fui ostracizzato, la gente aveva paura di me e alcuni ne hanno ancora!

Nel 1971 di ritorno dal Vietnam, frequentai la New York University grazie ad una borsa di studio per i veterani con l’intenzione di diventare un regista. Ebbi la fortuna di avere MartinScorsese come mio insegnante e c’era un’atmosfera davvero unica in quel periodo. I miei punti di riferimento all’epoca erano Fellini,  Godard e Bunuel. Riuscì a realizzare La mano e Seizure, anche se mi resi conto che non sono in grado di fare film horror: io volevo fare degli horror psicologici ma la gente voleva dei film dell’orrore più classici. In Italia ci sono stati maestri in tal senso come Mario Bava e Dario Argento, ma quel genre di film non faceva per me.

Tornando un attimo al mio rapporto con  Dino De Laurentiis, io volevo dirigere un film su Conan ma non si riuscivano a trovare  i soldi per acquisire i diritti. Dino invece ci riuscì e, una volta che entrò in possesso dei diritti di tutti e dodici i libri riuscì a far fallire quell’ambiziosissimo progetto. Sarebbe potuta diventare una serie di film alla James Bond, ma quando usci il secondo film faceva così schifo che nessuno ne volle sapere più niente. De Laurentiis era uno che distruggeva le cose, Fellini collaborò con lui per La strada ma poi non ci ha lavorato mai più.

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Come raggiunse il successo?

Il film con cui mi feci conoscere dal grande pubblico fu Fuga di Mezzanotte, che avevo scritto: grazie a quel film vinsi, infatti, vinsi l’Oscar. Nel giro di pochi minuti passai dall’essere nessuno all’essere sulla bocca di tutti. Hollywood è un posto pericoloso, e non si sa mai di chi ci si può davvero fidare. Feci molti errori da giovane e a causa della cocaina non ero molto lucido in quel periodo. Dopo il fallimento al boxoffice de La mano caddi in depressione, ricomincia a scrivere e tirai fuori Conan, L’anno del dragone e Scarface.

Solo dopo questo periodo decisi di ritornare dietro la macchina da presa e realizzai Salvador che venne finanziato da un produttore indipendente inglese, John Dailey, con cui collaborai nuovamente questa volta per Platoon. La carriera ha Hollywood è come una roulette russa. L’unico motivo per cui questi film trovarono un finanziamento fu perché iniziava a diffondersi l’homevideo e questo permetteva a piccoli film di trovare un po’ di soldi.

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Platoon, Nato il 4 Luglio e Tra cielo e terra formano la cosiddetta trilogia del Vietnam. Ce ne vuole parlare?

Platoon è un’autobiografia sotto mentite spoglie: parlo della mia esperienza personale in Vietnam e fu un enorme successo.

Con Nato il 4 Luglio,  il secondo capitolo di questa trilogia, volevo raccontare del destino di molti reduci, volevo una storia più grande di quella che era stata la mia e la storia di Ron Kovic, che aveva perso entrambe le gambe, deve rifarsi una vita e poi inizia a protestare contro la guerra era molto importante e interessante. Il film mi fece vincere il mio secondo Oscar alla regia e credo di aver causato non poche gelosie e invidie a Hollywood.

Con il terzo film, Tra cielo e terra, raccontai la storia da un punto di vista totalmente diverso. vIn questo caso quello di una donna vietnamita, che aveva vissuto la guerra da entrambe le parti, prima in Vietnam e poi sposata con un americano, che era Tommy Lee Jones. Anche la sua vita All’America non è interessato. Ed è ancora un film che mi fa piangere quando lo vedo.

Nel corso degli anni ho sentito una responsabilità crescente di raccontare la storia degli Stati Uniti. Ho parlato del  Vietnam, dei nostri Presidenti, e se da un lato voglio raccontare l’evoluzione e la storia del mio paese, dall’altro voglio raccontare la mia storia d’amore/odio con l’America. Oltre a questo genere di film ho ancora storie personali da raccontare e ci sto lavorando proprio ora.

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A questo punto il pubblico ha potuto intervenire nel dibattito e sono riuscito a prendere per primo la parola. QUI potete ascoltare la registrazione del mia domanda e la risposta del regista.

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Ci vuole raccontare del suo nuovo progetto, Conversations with mr Putin?

Le conversazioni tra me e Putin sono state di oltre 20 ore in 2 anni e abbiamo parlato di tutto, di vita, arte, filosofia. Per dichiarare qualcuno vostro nemico sono convinto che dobbiamo prima conoscerlo.

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Qui sotto trovate il video della prima parte dell’incontro.

Le foto precedenti sono state realizzate dal mio collega Cristiano Bacci. Di seguito, invece, trovate una breve galleria fotografica da me realizzata.

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Andrea Bianciardi