A volte, per raccontare una città, non serve mostrarne le strade, né le voci, né i volti. Basta entrare in una vecchia sala cinematografica abbandonata. È quello che fa Cinema AlDunia, documentario breve del 2024, diretto dal regista siriano Amro Ali e prodotto da Soora Films, presentato al South Italy International Film Festival. In appena quindici minuti, il film riesce a catturare l’anima del Cinema AlDunia, una piccola sala nel cuore di Damasco. Un luogo in declino, prossimo all’estinzione, ma ancora animato da un’identità sorprendentemente viva. Un luogo che non è solo uno spazio fisico, ma anche memoria condivisa e simbolo culturale. Una sorta di fossile vivente, che fatica ogni giorno di più, ma si ostina a resistere, a non morire.

Un documentario sulla resistenza quotidiana del Cinema AlDunia, dove ogni proiezione diventa un atto d’amore contro l’oblio.
“AlDunia” in arabo significa “il mondo”. Ma il mondo che abita questa sala non è più il nostro: è un mondo sospeso, dimenticato, dove il tempo sembra essersi fermato. Il Cinema AlDunia somiglia a un relitto incagliato nella memoria, una cattedrale silenziosa della visione. Ed è proprio questa sua condizione a renderlo così eloquente: il documentario gli dà voce senza bisogno di sovrastrutture, lo lascia parlare attraverso i suoi muri, le sue luci spente, i suoi silenzi. Niente enfasi, nessuna voce fuori campo. Solo sguardo, ascolto, presenza.
Ma cosa sta uccidendo il Cinema AlDunia? Non è la guerra, né la censura. Nemmeno le bombe. A minacciare la piccola sala è un nemico decisamente più subdolo: il vuoto. Nessuno entra, nessuno guarda, nessuno sembra più avere bisogno di quel luogo. L’industria cinematografica siriana non produce più nulla da anni, il pubblico non arriva, le nuove generazioni hanno disimparato a desiderare l’esperienza collettiva della sala. La desolazione circonda il cinema su tutti i fronti.

Un documentario sulla resistenza quotidiana del Cinema AlDunia, dove ogni proiezione diventa un atto d’amore contro l’oblio.
Eppure, ogni giorno, qualcuno accende la luce, strappa biglietti, mette in moto il proiettore. Come se nulla fosse cambiato. Come se quei gesti fossero ancora necessari. Il cinema AlDunia, nonostante tutto, continua ad avere il suo cassiere, il suo proiezionista, il suo proprietario. Un piccolo manipolo di addetti che restano. Che resistono.
Vivono in simbiosi con quel luogo morente. Nei loro occhi si legge una passione che commuove. Non contemplano una vita altrove. Non parlano del dopo. Anche perché non c’è un dopo. La disperata dedizione con cui tengono in vita il cinema AlDunia è ormai diventata la loro unica linfa vitale. Traspare una tanto radicale quanto incondizionata dichiarazione d’amore dai loro volti: se muore il cinema, muoio anch’io.
La bellezza di Cinema AlDunia sta anche nel suo non cadere mai nel patetismo. Non ci sono lacrime, né musiche enfatiche. Tutto ciò che vediamo è un lento ed inesorabile resoconto sulla sopravvivenza di un luogo ormai prossimo a morire. Ma è una morte lenta, combattuta, contestata. Ogni quotidiana ed insperata apertura equivale ad un atto di resistenza.
Nel corso del documentario, le voci dei lavoratori si sovrappongono come in un coro dolente, a metà fra la rassegnazione e la fede. Una fede laica, fatta di pellicole impolverate, luci fioche e sedili vuoti. Il cinema, per loro, è più ben di un mestiere. È una lezione, un’eredità da proteggere anche se nessuno sembra più disposto ad ascoltarla.
E allora il cortometraggio di Amro Ali si trasforma in una domanda esistenziale. Qual è il senso di andare ancora in sala? Perché ci ostiniamo a credere che sedersi nel buio, fianco a fianco a degli sconosciuti, abbia un senso?
La risposta giace nei piccoli dettagli messi in scena da Ali. La si può trovare nelle mani del proiezionista che accarezza la macchina da presa come fosse un oggetto sacro. Oppure nei gesti meccanici del cassiere che conta gli incassi di una giornata senza pubblico. O ancora nel tentativo del custode di accendere disperatamente il generatore che illumina tutto il cinema. Tutti questi piccoli ma significativi cenni ci mostrano che il cinema non è solo un luogo. È un’idea. È una forma di appartenenza.

Un documentario sulla resistenza quotidiana del Cinema AlDunia, dove ogni proiezione diventa un atto d’amore contro l’oblio.
Cinema AlDunia non racconta un’epopea, ma una fine. E lo fa con una delicatezza disarmante. Nessuna invettiva, nessuna retorica. Solo corpi che resistono, quotidianamente, in un rituale che sembra sempre sul punto di spezzarsi. Ma che, miracolosamente, si ripete.
E forse è proprio questo che rende il documentario così potente: la sua capacità di suggerire che il senso del cinema non sta nel numero di spettatori in sala, ma nel continuare a proiettare. Finché la pellicola gira, la speranza rimane viva.
Cinema AlDunia è un film piccolo, umile, prezioso. Ci ricorda che il Cinema — quello vero — vive anche quando muore. E che ogni sala è un tempio, anche se vuoto. Anche se dimenticato. Anche se in rovina. D’altronde, una cattedrale nel deserto rimane pur sempre una cattedrale.