Il 38° Nord è la terra di confine dello Stretto di Messina, dove Sacralità e Natura s’incontrano. Qui una processione si fa strada nelle tenebre di una densa tormenta. L’immagine della Madonna, contornata di lumini, è portata in spalla da un corteo di fedeli per il paesaggio brullo ed oscuro, fino al mattino seguente, quando l’icona sacra è celebrata su una versante roccioso a strapiombo sul mare. Nelle immagini che descrivono il rituale si rivela la presenza di un mondo arcaico, dove l’uomo, il culto e la natura sono sintetizzati in perfetta armonia. Chiusura del prologo, titolo su sfondo nero ed inizio del film. Le prime immagini del documentario sono un elogio al sublime, rappresentato attraverso i campi lunghi e lunghissimi del paesaggio naturale in cui si muovono i credenti, magnifico ed angusto allo stesso tempo.
Tuttavia la Madonna non porta fortuna al protagonista della storia, un giovane pescatore sulla trentina, che pattuglia il mare di notte in cerca del suo pane quotidiano. Lo sguardo registico rafforza lo scarto fra il prologo e queste immagini iniziali, tanto che sembrano provenire da mondi lontani e non dal medesimo parallelo. Lo spettatore è proiettato in un’altra dimensione, più terrena e problematica, in cui l’uomo si confronta con le dinamiche di sopravvivenza del 38° Nord, un luogo con preponderanti connotazioni crepuscolari. Lo testimoniano le sue grandi costruzioni, fiore all’occhiello dell’alta ingegneria, ora fatiscenti ed abbandonate, proprio come i pontili dove i passanti vanno a pescare e a fare il bagno. In queste scene, il corpo umano è conquistato dall’imponenza degli inutili relitti ferrosi, che gli impediscono di ricongiungersi con il mare, elemento onnipresente e primario del film. Metonimia affascinante della natura stessa. Fotografia e suono restituiscono in modo interessante questo processo di de-naturalizzazione: il primo attraverso un processo di sezionamento dell’immagine (finalizzato ad avvicinare l’uomo alle proprie costruzioni in decomposizione), il secondo sovrapponendo e alterando la natura del materiale sonoro. Tutto ciò è espresso nell’immagine di uomo in costume che si tuffa dal pontile. Il mare rimane fuori campo e la caduta del corpo umano, che è visivamente nascosta, non termina con il suono dell’impatto nell’acqua, ma con i rumori ferrosi provenienti dal pontile. Viene consolidata dunque la presenza di un uomo “nuovo”, non più figlio della natura, ma di qualcos’altro. La paternità indefinita è proprio l’elemento più ambiguo del film: figlio della modernizzazione, figlio del cambiamento antropologico, figlio di un’altra cultura o semplicemente figlio di una nostalgica entropia. Non è dato sapersi. Eppure le immagini del giovane pescatore che vaga nella notte sulle navi e nelle stazioni vuote, fa propendere per quest’ultima opzione.
E’ chiara invece la naturalezza con cui lo sguardo registico di Nunzio Gringeri si immerge nel mondo raccontato. I protagonisti parlano direttamente in macchina, rivolgendosi ad un interlocutore immaginario, che coincide con il dispositivo della visione. Un espediente documentaristico molto utilizzato è quello dell’intervista “camuffata”, per cui il testimone risponde all’autore dialogando con un soggetto terzo interno alla diegesi. Entrambe le soluzioni tendono ad intrecciarsi, tanto da rendere complicata una vera e propria distinzione. Questo approccio, che recupera uno sguardo-testimone, dà vita a momenti di interessante sperimentalismo linguistico, per cui l’autore sembra recuperare l’ottica del viaggiatore o in alcuni casi del turista: sono i momenti in cui la macchina da presa emerge dall’acqua e scruta i bagnanti sulla spiaggia oppure percorre delle scalinate panoramiche ed osserva il paesaggio tutto attorno. A metà del film si cambia registro. Viene introdotto un nuovo testimone, una donna che vive nella zona del porto e racconta del suo legame affettivo ed esistenziale con il mare. La sua storia, ricca di pathos e drammaticità, è restituita attraverso una narrazione più lineare, affidata principalmente ad interviste classiche o in voice over sulle immagini. La differenza con il registro stilistico usato in precedenza è evidente, ma ciò non crea problematiche sensibili ai fini della narrazione generale. In queste scene si approfondisce il motivo del mare, che è il cuore pulsante del 38°Nord. Un organo malato e maltrattato dagli abitanti stessi di quelle zone, che per alcuni è ancora ricettacolo di sentimenti, ricordi e nostalgie. Quello che una volta era un immenso vivaio di specie naturali ed oggi non lo è più, come testimoniano gli stessi pescatori, i primi a risentire degli effetti dell’inquinamento marino. In definitiva le sorti del 38° Nord e dei suoi abitanti appaiono inevitabilmente collegate a quelle del mare, così come il malessere di quest’ultimo si riflette nello sconforto e nella nostalgia dei primi.
Sul finale si ritorna alla festa della Madonna e viene da pensare che tutto il film sia un tentativo di tornare nel prologo, a quella condizione di armonia ideale ed idealizzata in chiave autoriale. Seguire le tracce della nostalgia per avere in cambio una risoluzione divina di tutti i problemi, che però tarda ad arrivare. La fede ancora una volta non aiuta, poiché la festa non può restituire ciò che oramai è perduto per sempre. Bellissime, a tal proposito, le inquadrature sul mare, dalle scogliere e del porto, che mostrano il duello paradossale fra il sublime naturale dello stretto e la grandezza faraonica delle navi da crociera. In tutto questo l’umanità si perde. Nella vastità dello spazio e nel silenzio di una città fantasma. Esattamente come per i protagonisti, abbandonati nella continua contemplazione dell’assenza. Singoli di una umanità persa e quindi drammaticamente sola.
Emanuele Paragallo