Guardare 31 di Rob Zombie è come varcare la soglia di un mescalinico e cafoncello tunnel degli orrori, pieno zeppo di freaks psicopatici, sadici circensi killer e smargiassi scommettitori di morte. Un carosello innaturale di faceto dolore e gigioneggiante perversione, attraversato da un’ironia verbale infarcita di reiterato turpiloquio e slang linguistici “tipici” di quell’America del sud rurale così nascosta eppure tanto presente e “amata” nell’universo mefistofelico del regista/musicista. Una paccottiglia, passateci il termine che in tal caso non vuole essere del tutto dispregiativo, in linea con quegli ormai famigerati b-movie di terza categoria che mai come in questo episodio si confermano cifra stilistica di quel gran bel regista, anche se a noi piace definirlo un autore reietto quanto e più dei suoi personaggi, quale è Rob Zombie.
Siamo negli anni ‘70, tanto per cambiare, il clima e l’atmosfera riecheggiano, seppur con le dovute distanze e proporzioni, quelle del capolavoro The Devil Rejects, il nettare è lo stesso, i tipi e le facce si somigliano e tornano a benedire, o maledire come meglio credete, quel gusto per lo sberleffo purulento e untuoso tipico del modo di essere di quasi tutti i caratteri forgiati dal regista di Haverhill. Abbiamo un furgoncino carico di hippie sbarellati e caciaroni che senza troppe cerimonie finiscono nelle grinfie di un manipolo di circensi ancor più fuori di testa. È la notte di halloween e c’è un gioco da fare: si chiama proprio 31. I giovani dovranno resistere per dodici ore all’interno dello sperduto The Murder World, nelle mani di un manipolo di assassini feroci, psicotici banchettatori di morte e altri fenomeni da baraccone, ognuno di loro travestito da clown. Tutto qui, la storia è un mero pretesto, i personaggi sono per lo più mangime per i polli, destinati ad una poco nobile fine, un po’ come insegnava il nostro Mario Bava nel suo sempre verde Reazione a Catena: devono morire tutti e nel peggiore dei modi, non può esserci speranza, non deve esserci speranza, quel che non può mancare è invece il sangue, le frattaglie e una buona dose di sense of humor grossolano più o meno riuscito. Ed è qui che il film inizia a mostrare le prime crepe, se così vogliamo definirle, il plot elementare, anche troppo, si accartoccia troppo su se stesso, fino a divenire quasi caotico. All’interno dei sudici cunicoli del The Murder World i cinque sopravvissuti ripetono costantemente le stesse mosse e le stesse battute, sono dei topi in trappola e fanno di tutto per non sembrare altro, lo stesso Zombie sembra imbolsirsi un tantino e quando in ballo entra la frenetica azione, dove gli assassini iniziano ad affilare le lame e ad attivare le loro motoseghe, la confusione diviene un personaggio invisibile del film. La regia appare un po’ imbarazzata e la sensazione che qualcuno abbia attivato un frullatore nel quale lo spettatore ci sia, incautamente, caduto dentro è alta e percepibile. In queste scene c’è solo tanta violenza ma poca continuità, la macchina da presa si muove in modo innaturale, sregolato, soprattutto slegato e i combattimenti fra vittime e carnefici ne risentono un bel po’ perché mostrati in modo del tutto raffazzonato, grezzo, ma questo non sempre è un guaio, diciamo pure incongruo. Della sorte dei malcapitati viaggiatori, comunque, non è che ce ne freghi molto, nonostante fra loro ci sia la fedelissima e bellissima consorte del regista, Sheri Moon, tanto attraente, quanto monocorde musa. Anzi, quasi, quasi si arriva a parteggiare senza rimorsi per gli schizzoidi circensi, sempre sul pezzo, pronti a vivisezionare a sciorinare barzellette e perle di saggezza e a riderci su. Eppure, a parte questo, il film si mostra come un treno in corsa tanto goffo quanto genuino e spassoso, fa leva su un’ autoreferenzialità che, in fin dei conti, non disturba, proprio perché marchio di fabbrica del cinema di un regista dal quale non possiamo aspettarci alternative, alternative che, se si esclude il bel precedente di Lords Of Salem, non abbiamo mai avuto, per fortuna.
In 31 il plot è incentrato su un gioco e di questo si tratta, di questo e nulla più. Rob Zombie qui gioca, se la ride e si diverte come un bimbo al parco giochi, butta tutto all’aria, tutto: trama, personaggi e tensione drammaturgica, se di ciò vogliamo parlare, schiaccia lo start di una giostra grandguignolesca e si lascia andare ad una feroce e istintiva libido assassina. Probabilmente questo è potuto succedere grazie o a causa di una (non) produzione con la quale il film è stato messo in piedi, l’opera è stata realizzata con i soldi dei fans, attraverso un crowdfunding appassionato e il buon Rob ha forse avuto più libertà di quanta ne potesse gestire. Ma va bene così.
31, quindi, funziona a tratti e si accartoccia in altri, ripetendosi un po’ e cedendo nel phatos. In effetti e in tutta onestà, in termini stilistici e registici, è un bel passo indietro rispetto al coraggiosissimo e tanto amato quanto disprezzato Lords Of Salem, ma non la catastrofe della quale nell’ambiente non si fa che declamare; lo stile del regista, seppur non sempre ben dosato e altalenante, c’è ed è tangibile ed anche il phatos, a volte molle o del tutto assente come dicevamo prima, è ben presente nell’ottima scena iniziale, prima di essere investiti dagli strabilianti titoli di testa accompagnati dalle note di Walk Away, classico dei The James Gang e poi nel pazzesco finale. Un finale che è roba davvero emozionante, un epilogo dove, in verità, non accade niente, solo lunghi sguardi, tempi dilatati, Dream On degli Aerosmith in crescendo e una tensione che monta lentamente, lasciando presagire di tutto e di più. Non ai livelli dello storico finale di The Devil Rejects, ma, ad ogni modo, enormemente folgorante. Curioso come in entrambe le scene sia protagonista il personaggio di Doom Head, autentico mattatore, interpretato da Richard Brake. Una menzione anche per l’ormai fidato Malcom McDowell, nel barocco ruolo del burattinaio scommettitore Father Murder.
Quindi, che dire, sì, è una siocchezza, ma una sciocchezza che non vuole essere altro, ne pretende chissà quali oneri e onori, è un baraccone sporchissimo, innocuo e parecchio imperfetto che avrebbe potuto stare bene anche nelle mani del compianto Herschell Gordon Lewis.
Manuele Bisturi Berardi