“Michael Peterson, alias Charles Bronson, è, ed è stato, il detenuto più pericoloso della Gran Bretagna, da trentacinque anni in carcere, di cui trenta in isolamento”.
Non è ‘l’infernale Quinlan’ di Touch of evil, con tutta la parabola nichilista annessa, e neanche la personificazione del male, inquietante e ‘banale’: Michael Peterson, in arte Charles Bronson, è l’innocenza della violenza, un corpo virile e ostinato che lotta, perché è esso stesso lotta; é un movimento indomabile, una danza di nervi e muscoli, un gesto che rompe, non per distruggere, ma perché, nella sua purezza, non può svanire nella corruzione della quiete.
Charles Bronson è una volontà che non cessa di volere.
Bronson (2009) di Nicolas Winding Refn potrebbe costituire un interessante saggio sulle possibilità di un corpo, nelle sue differenti declinazioni: avere un corpo, essere un corpo, donare un corpo. Bronson è la discontinuità ‘indiscreta’ che interrompe la scialba causalità che lega i fenomeni, è il vuoto che erra tra i termini della situazione, é un corpo osceno che dev’essere occultato. Non è eversione, ma ripetizione, è l’ombra che ci fiancheggia anche quando il cielo è nuvolo, è una potenza disorganizzante. È il fanciullo annunciato da Zarathustra.
Michael Peterson è, ed è stato, il detenuto più pericoloso della Gran Bretagna, da trentacinque anni in carcere, di cui trenta in isolamento. Eppure non ha commesso delitti efferati, ma solo reati, quelli che gli hanno permesso di soggiornare nel non-luogo tanto amato, quella prigione da lui considerata più confortevole di un albergo, dove potersi dedicare alla costruzione della propria celebrità. Icona delle masse britanniche, Peterson porta alla luce il desiderio latente di smarcarsi dal giogo dell’autorità, riattivando il caos che cova sotto le ceneri dell’ordine.
Bronson è creatività pura, è il punto in cui arte e vita si fondono; non può produrre capolavori, perché esso stesso è un capolavoro. È il superamento dell’arte, che è sempre borghese, sempre rappresentazione di stato. È uno che si ama a tal punto da arrivare ad infischiarsene di tutto, soprattutto di se stesso. È il rosso del sangue, il nero delle tenebre, ma anche il bianco latte della sua pelle, dell’innocenza. È quell’impossibilità che è condizione del possibile. È il mistero dell’atto che ha tagliato i ponti con l’arroganza dell’azione.
Bronson è un mistico, è antisociale, è pericoloso. Bronson è l’oblio.
Luca Biscontini
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