“Se chiudo gli occhi non sono più qui” è il mantra che recita il sedicenne Kiko (Mark Manaloto) quando le sue giornate si fanno insostenibili, e lui non ne può più. Succede spesso, troppo spesso. Tanto da impedirgli quel minimo di serenità per elaborare angosce adolescenziali e morte del padre: due eventi che, insieme, amplificano il disagio, rendendolo intollerabile. Il rito si consuma all’interno di un pullman arrugginito vicino casa. Lì Kiko ha inventato il suo mondo, fatto degli oggetti più cari, le foto del padre soprattutto, con cui continua il dialogo su ciò che li aveva uniti: l’amore per le stelle, l’astronomia e gli interrogativi sull’infinito.
Un paio di volte il regista Vittorio Moroni ci mostra il nostro adolescente (diventa nostro molto presto nella narrazione) sul tetto dell’autobus, ricordandoci subito Alexander Supertramp e il suo desiderio di libertà, il viaggio verso le terre selvagge. Qui di selvaggio c’è la sterpaglia che circonda il tempio di Kiko, nello squallido paesaggio italiano del Nord-Est, in cui è costretto a vivere con la madre filippina, e il nuovo amore di lei (Beppe Fiorello). Ennio è un uomo rozzo, convinto che essere davvero maschi significhi solo lavorare duro. Svilisce lo studio di Kiko, che al mattino frequenta il liceo e di pomeriggio è costretto ad andare in cantiere (insieme ai manovali stranieri senza permesso di soggiorno, che il patrigno ha assoldato), rischiando la bocciatura una seconda volta.
“È una gioia nascondersi, ma è un disastro non essere scoperti”, sosteneva lo psicanalista Donald Winnicott. A scovare Kiko, ci pensa il personaggio di Ettore (Giorgio Colangeli): mentore o mentitore? Il ragazzo non si fida, perché “la vita fa schifo” e “nessuno dà niente per niente”. In effetti, l’aiuto di Ettore è un po’ eccessivo. Si presenta come amico del padre, offre doni e ospitalità, si permette persino di invadere il suo spazio, quel luogo sacro che riflette e contiene tutte le emozioni, tutte le sofferenze, tutto ciò che altrove risulta indicibile. Nonostante le diffidenze, Kiko, orfano anche del nonno perché lontano, prima o poi si affiderà ad un anziano che di un nonno ha tutte le caratteristiche, le attenzioni, la saggezza. E rimane affascinato dalla sua cultura, quella che sa dilatare l’esistenza, approfondirla: “La vera scoperta non è di nuove terre, bensì di nuovi occhi”, una delle tante citazioni che i due scrivono sui sassi del fiume, con i quali riempiono ogni ripiano di casa. “Se riguarda un essere umano allora non mi può essere estraneo”, frasi che colpiscono la coscienza, che rafforzano il pensiero, ma soprattutto costruiscono radici. Altri hanno sofferto prima di noi, meditato, per lasciarci la loro testimonianza di umanità. Non solo: se tutto ciò che è umano ci appartiene, allora la realtà si carica di sfumature e quando l’adolescente è in grado di coglierle, allora, sì, è cresciuto.
Kiko riuscirà a riaprire gli occhi, ad esserci, a non negare più le sensazioni, a sentire davvero, e smetterla di rifugiarsi nell’assenza come unica difesa dai mali del mondo. Ma con un altro colpo di scena nella storia e nella sua mente e con un dolore aggiuntivo, come non bastasse quello vissuto fin qui! Nella resa di questo dolore Mark Manaloto è perfetto. Ce ne parla il regista, alle tre di un pomeriggio feriale, e invernale, in una sala ovviamente poco affollata, che non lo ha reso meno generoso nel raccontarsi. Ci dice come è stato scelto, (tra un centinaio di giovanissimi italo-filippini) l’interprete di Kiko, che il dolore dell’abbandono se lo porta dentro; arrivato in Italia all’età di dieci anni, ha subito la perdita dei nonni che gli sono stati genitori, ed è riuscito a riviverla spontaneamente, ma nell’ ambiente protetto del set.
Altro ci ha raccontato ancora di sé Vittorio Moroni, della sua formazione, del passaggio dal primo film, Tu devi essere il lupo, con una sceneggiatura rigida, fino a privarsene del tutto per Le ferie di Licu: anche qui un personaggio che vive la doppia identità, quella bengalese e quella italiana,finché con il matrimonio prevale, inaspettatamente, la prima. Inaspettatamente, perché, in questo caso, si è lavorato sempre in competizione con la realtà. Se chiudo gli occhi non sono più qui ha visto invece l’incontro tra realtà e finzione, come se la prima “invitasse ad un corpo a corpo e la forma poi la contenesse”. Il film, costato cinque anni di lavoro e diciannove stesure, è stato girato, non a caso, con una troupe composta tutta di documentaristi. Moroni ha anche trascorso un mese intero in un’aula scolastica e si vede; gliene siamo grati dopo la quantità esagerata di film sulla scuola, e le fiction, intrisi di luoghi comuni e ovvietà.
E’ un piacere ascoltare Vittorio Moroni; parla con ritmo pacato, e un tono che non scade mai nel linguaggio e nei contenuti. Insomma, per noi, un bel pomeriggio passato insieme, una bella lezione di cinema. Ora sta accompagnando il suo film nelle scuole e Lombardia Spettacolo, con la recensione di Fabio Mantegazza, lo ha già inserito nel nuovo catalogo. E’ disponibile anche un articolato dossier che ragazzi e docenti possono consultare per essere guidati nella visione.
Margherita Frantantonio
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