Rivedere oggi Ossessione di Luchino Visconti, a oltre ottant’anni dalla sua uscita, significa immergersi totalmente nella storia del cinema. In particolare in quella importante stagione del neorealismo italiano che, per alcuni studiosi, ha avuto vita estremamente breve con molti film realizzati in pochi anni (dal 1945 al 1948), mentre per altri ha avuto una durata molto più lunga (dall’inizio degli anni Quaranta sino ai Sessanta) con pochi film racchiusi in uno spazio temporale decisamente ampio.
Ossessione, film del 1943 ma iniziato a girare nel giugno dell’anno precedente, è considerato da alcuni il vero capostipite del neorealismo, il cui inizio, in genere, viene fatto coincidere con l’uscita, nel primissimo dopoguerra, di Roma città aperta di Roberto Rossellini.
Il film è visibile sulla piattaforma streaming Prime video.
Film ispirato a “Il postino suona sempre due volte” di James M. Cain ma ambientato nella pianura padana lungo il delta del Po
Il film di Visconti è ispirato al romanzo noir di James M. Cain “Il postino suona sempre due volte”, libro proibito in Italia dal regime ma che Visconti ebbe modo di leggere in Francia nella seconda metà degli anni Trenta, al tempo in cui era assistente alla regia di Jean Renoir.
In Italia sin dalla fine di quel decennio stava emergendo, fra i redattori della importante rivista di settore “Cinema”, un’istanza di rinnovamento verso un’arte nuova che si affrancasse da quelli che, sino ad allora, erano i canoni stilistici e le poetiche del cinema di regime (ad esempio i “telefoni bianchi” e i film di propaganda, ai quali, per altro, aveva dato il suo contributo lo stesso Rossellini con La nave bianca, Un pilota ritorna e L’uomo della croce, realizzati durante gli anni del conflitto); un cinema che si riconnettesse direttamente alla tradizione realistica della letteratura verghiana e del cinema francese del periodo del Fronte Popolare. Si trattava, ovviamente, di un’azione volta a denunciare la politica repressiva fascista che diede pochi frutti ma che portò nel 1943, quando ancora il regime non era caduto, alla realizzazione della prima regia di Luchino Visconti.
Il regista milanese, rispetto al “Postino” di Cain, sposta l’azione dall’America all’Italia e, in particolare, alla zona del delta del Po. Qui, in un assolato giorno di piena estate presso una stazione di servizio con annessa locanda gestita dal Bragana (Juan de Landa), giunge Gino (Massimo Girotti), un vagabondo che vive alla giornata e che, per mangiare, si offre per piccoli lavori da meccanico.

Sguardi che si incrociano e che comunicano desiderio ed erotismo
Quando Gino entra nel locale viene attratto da una voce femminile proveniente dalla cucina che canta “Fiorin fiorello”, una canzone popolare molto in voga in quel periodo. A cantarla è Giovanna (Clara Calamai), la moglie del Bragana, vera e propria dark lady nostrana, che scorgiamo seduta sul tavolo con le gambe nude penzoloni. Nel momento in cui Gino si affaccia alla porta della cucina e il suo sguardo incrocia quello della donna, scocca fra i due una scintilla che sarà preludio a una attrazione fisica che li porterà a sbarazzarsi del marito per vivere la loro passione senza più impedimenti. Da questo momento la vita dei due amanti non sarà più la stessa e l’eros, contaminandosi con la morte, li farà sprofondare in un vortice dal quale non saranno più in grado di emergere.
Alcuni temi presenti, lo stile e le poetiche fanno di Ossessione un film in netta rottura con un certo cinema di regime
Parlare di Ossessione come primo film neorealista non è affatto peregrino in quanto in esso si possono già intuire molti dei temi o stili che caratterizzeranno questo movimento. Il film di Visconti, infatti, si discosta in maniera netta e sostanziale da tutto il cinema realizzato nel decennio precedente.
In particolare per quanto riguarda alcuni temi quali il sesso raccontato, seppur non in maniera esplicita, con scene nelle quali prendono il sopravvento l’erotismo e la carnalità dei due protagonisti; il disgregamento del nucleo familiare, sino ad allora considerato come focolare e unica forma socialmente corretta di convivenza fra uomo e donna e qui, al contrario, considerato come vera e propria gabbia per la donna, che vive i suoi giorni insoddisfatta accanto a un uomo molto più vecchio di lei che la considera, più che altro, uno strumento per avere figli.
Altro elemento da tenere in considerazione è l’azione delittuosa che, ovviamente, è sempre esistita ma che, durante il ventennio veniva nascosta per non deturpare l’immagine di sicurezza che il regime voleva dare di sé. Infine, assume particolare importanza il paesaggio, quello reale, assolato e polveroso, del delta padano filmato dal vivo e non ricostruito in un teatro di posa, autentico protagonista che assiste, muto, alla degradazione morale dei due protagonisti.
Sono tutti aspetti che permettono a Ossessione di acquisire quelle caratteristiche che, di lì a un paio d’anni, sarebbero diventate la cifra stilistica dei film neorealisti di Rossellini, De Sica, Lattuada, De Santis o dello stesso Visconti, che realizzerà successivamente La terra trema, ispirato ai “Malavoglia” di Giuseppe Verga.
La sceneggiatura di Ossessione (inizialmente intitolata “Palude”) è opera, oltre che dello stesso regista, anche di Mario Alicata, Giuseppe De Santis e Gianni Puccini, ma alla realizzazione del progetto hanno collaborato in varia misura anche Pietro Ingrao, Alberto Moravia, Antonio Pietrangeli, Libero Solaroli e Mario Serandrei nella veste di montatore e al quale si attribuisce l’invenzione del termine “neo-realismo”.

Un film diviso in due parti nelle quali si ravvisa una perfetta simmetria
Il frutto di questa collaborazione è un film idealmente diviso in due parti simmetriche, prima e dopo il delitto. Nella prima viene raccontata la passione crescente fra Gino e Giovanna che li porterà a uccidere il Bragana. Di grande impatto, in questa prima parte, è l’incipit del film, in cui osserviamo Gino, sempre ripreso di spalle e di cui non vediamo il volto, scendere da un camion dal quale aveva scroccato un passaggio, dirigersi verso l’ingresso dell’osteria e, successivamente, verso la cucina attratto dalla canzoncina cantata da Giovanna. In una bellissima inquadratura vediamo unicamente le gambe del vagabondo infilate in un paio di scarpe scalcagnate avviarsi, un po’ affaticate, verso il fondo del locale.
Successivamente, affacciatosi alla porta della cucina, Gino vede la donna seduta sul tavolo. Di lei intravediamo solamente le gambe dondolanti, in quanto il resto del corpo è nascosto dalla schiena dell’uomo. È solo a questo punto che la macchina da presa ci svela in rapida sequenza, prima il volto di Giovanna poi, con un controcampo, quello di Gino, facendo chiaramente intuire che gli sguardi che si stanno lanciando sono messaggi carichi di desiderio. Una passione che evolverà sino a raggiungere il suo apice con l’omicidio del Bragana.
Tutta la seconda parte, invece, è incentrata sui tentativi di Gino, tormentato dai sensi di colpa, di dimenticare la donna e il male commesso. In questo, inutilmente aiutato dallo Spagnolo (Elio Marcuzzo) e da Anita (Dhia Cristiani).

Il primo è un saltimbanco che Gino incontra per caso su un treno diretto ad Ancona e che lo invita a dimenticare le donne per condurre insieme a lui una vita vagabonda e libera. Tale elemento va letto come denuncia al regime e invito a riacquistare la propria libertà da troppi anni negata, unitamente al fatto che fra i due si intuisce, anche se mai realmente esplicitata, una relazione omosessuale, all’epoca considerata tabù e perseguibile e che, in questo contesto, assume un significato di contestazione.
Anche il personaggio di Anita, una ballerina e prostituta che si lega a Gino aiutandolo a sfuggire alla polizia che lo sta ricercando per il delitto, è una emarginata che, alla pari dello Spagnolo, reca con sé valori positivi diametralmente opposti a quelli propagandati dal regime.
Visconti, con Ossessione, realizza un melodramma in chiave realistica che diventa “un film politico” (Alessandro Bencivenni, “Luchino Visconti”, ed. Il castoro, Milano, 1982) in cui Gino assurge a simbolo di libertà e dove l’antifascismo riguarda “anzitutto, la qualità della vita” e in cui “l’arrivo del vagabondo dà a Giovanna l’illusione di sfuggire alla sua condizione di avvilimento” (id.). Quella stessa condizione alla quale, molti anni dopo, cercherà di sfuggire l’Antonietta interpretata da Sophia Loren in Una giornata particolare (Ettore Scola, 1977) nel momento in cui conosce Gabriele (Marcello Mastroianni), omosessuale e perseguitato, in quanto tale, dal regime fascista.