Vie Privéenon è un giallo, non è un thriller, bensì uno psicodramma che ci fa sorridere. Jodie Foster interpreta una psichiatra fredda, apparentemente priva di emozioni, evitante e al contempo problematica. Non dinanzi ai suoi occhi:
“Sono una psichiatra, se fossi depressa lo saprei.”
Ma possiamo davvero compiere una diagnosi su noi stesse? La protagonista, Lilian Steiner, crede di sì. Finché un giorno scopre che una sua paziente è venuta a mancare. Ed è lì che il suo inconscio si esprime: Lilian inizia piange ininterrottamente per tutta la giornata. Non vuole credere che possa trattarsi di un problema legato alla psiche.
Incontriamo poi un personaggio che ci farà sorridere: il suo ex marito, Daniel Auteuil, che veste i panni di Gabi. Gabi, invece di “curare anime”, come lui stesso sostiene, cura gli occhi. Ma capisce ben presto che il problema non risiede nell’anatomia.
Nell’inconscio di una psicoterapeuta
Il viaggio dell’eroina viene percepito dallo spettatore in modo diverso rispetto a come lo vive Lilian. Il suo percorso nasce dalla scoperta della morte di una paziente: un pedinamento in cui coinvolgerà anche il suo ex marito Gabi. Ma lo spettatore capisce presto che il viaggio è un altro: è quello dentro la psiche più profonda, alla ricerca del motivo della sua forte sofferenza per questa perdita.
Sembra quasi che Lilian, consapevolmente, voglia scoprire l’assassino, ma nel profondo voglia anche scoprire una parte di sé. Per smettere di piangere decide di seguire una terapia che si basa sull’ipnosi, consigliata da un suo paziente. Da qui iniziano i nostri interrogativi. sul legame con la paziente che è morta. C’è qualcosa che non sappiamo? Forse l’amava? La sua ricerca diventa un lavoro da “detective”, parallelo a quello sulla causa della morte. Lilian, inizialmente, non si farà troppe domande. È solo felice di non piangere più. Quando inizierà a porsele, coinvolgeranno su se stessa, i suoi famigliari, l’ex marito, ma soprattutto il figlio, Julien, con cui non ha un buon rapporto.
Il rapporto madre e figlio in Vie Privée
Julien, interpretato da Vincent Lacoste, si sente messo da parte, non ascoltato. Lilian lo cerca solo quando ha bisogno di qualcosa. È fredda, distaccata, evitante. Quando lui vorrebbe soltanto una madre capace di volergli bene.
“Sì, è complicato. I nostri rapporti con i figli sono complicati. I rapporti con le nostre madri sono complicati. Perché siamo esseri umani molto complicati.”
Così sostiene Jodie Foster, che non giudica né denigra Lilian, ma la comprende. In Vie Privée scopriamo che la madre è costretta a imparare il francese, poiché il figlio si rifiuta di parlare la sua lingua: un dettaglio non indifferente che ha colpito molto l’attrice.
La persona di Lilian
Il rifiuto e l’evitamento sono i due comportamenti chiave di Lilian. Si rifiuta costantemente di guardare in faccia le cose: i sentimenti per l’ex marito, l’affetto per il figlio. Ma lo vediamo soprattutto nel suo lavoro. La psicoterapeuta registra tutto: ogni seduta viene messa su cassetta, per poi essere riascoltata in un secondo momento. Evita dunque di ascoltare davvero, evita che i sentimenti e le emozioni possano sopraffarla o alterare la sua persona. Una maschera creata per mostrarsi impenetrabile, sicura, sempre controllata.
La maschera però cade dopo l’ipnosi. Sì, non piange più, ma qualcosa si è aperta e non può più essere ignorata. Mentre nel Bluedi Krzysztof Kieślowski, Julie cancella radicalmente ogni memoria emotiva, Lilian mantiene una distanza di sicurezza.
“Vivere le emozioni è un punto di arrivo”
sostiene lo psichiatra Antonio Ferro.
Ed è proprio questa “la prova” che Lilian deve affrontare: può smettere di piangere, sì, ma deve ricordare cosa provava durante la sua terapia per arrivare al nocciolo — sia della sua indagine, sia della sua ricerca di sé.
“E con Jodie Foster in questo film, si tratta di portare la persona più controllata e intelligente in un viaggio di sensualità e perdita di controllo nelle vite passate e nel suo inconscio. Ed è stato divertente. Lei ha capito il film più chiaramente di me. Mi ha spiegato il film.”
Racconta la regista Rebecca Zlotowski.
Il paradosso del controllo
Lilian controlla, in qualche modo, la vita dei pazienti. La figlia della defunta arriverà perfino a darle la colpa della morte stessa. Ma la protagonista, vincolata dal segreto professionale, non può aprirsi, non può parlare. Ecco il paradosso del segreto professionale: sarà costretta ad andare alla polizia, ma senza poter spiegare le motivazioni degli eventi.
È come se la sua professione avesse preso il controllo della sua vita. Come se la sua vita privata si fosse fusa con tutte le storie registrate sulle cassette. Lilian crede di avere il controllo su tutto, ma nella realtà nessuno sa cosa c’è oltre la barriera dell’inconscio, quel terreno incerto che riaffiora nella realtà attraverso dubbi, sensi di colpa e un “giallo” sottile.
Una parte di noi che, se annientata, come cercava di fare il demone Enmu in Demon Slayer: Il treno Mugen, provoca la distruzione totale del Sé. L’identità si annulla, e l’individuo si trasforma in un guscio vuoto, privo di volontà.
Questo riflette la paura più profonda di Lilian: nonostante pensi di avere il controllo assoluto, la sua ossessione per il caso della paziente suicida e il ricorso all’ipnosi dimostrano che l’inconscio ha già infranto quel muro. Un muro che la porterà verso una dolorosa responsabilità emotiva, quella che ha cercato di evitare per tutta la vita.
In sala dall’ 11 dicembre distribuito da Europictures