Greek Apricots è un cortometraggio di finzione che prenderà parte all’Euro Balkan film festival.
Racconta la storia di Mark, un ragazzo che lavora in una stazione di servizio lungo l’autostrada. Una sera incontra una donna, Nada, con la quale fa conoscenza e che scopre essere macedone. Il corto esplora la dimensione della profonda solitudine dei due protagonisti – in particolare di Mak – e ci racconta l’episodio che rompe questa monotonia, condizione in cui però i protagonisti piombano di nuovo, sul finale.
Si tratta di un’opera che utilizza un linguaggio semplice, uno stile minimale, non innovativo ma molto funzionale al racconto e una messa in scena che punta, in generale, al realismo, senza pretese. Il risultato è interessante e decisamente apprezzabile.
L’approccio registico
Il corto ha una regia molto particolare: ci sono diverse inquadrature molto ampie che permettono di vedere molto dell’ambiente circostante, giocando spesso anche con elementi più specifici di esso. Le inquadrature larghe permettono di percepire la solitudine provata dal protagonista. Gli unici primi piani sono presenti nella scena in cui Mak e Nada parlano, seduti al bancone del bar, al buio, che in quel momento è chiuso. Il primo piano sottolinea la vicinanza tra i due personaggi di quel momento e spezza quella sensazione di desolazione, evidentemente provata non solo da lui, ma anche da lei, che di mestiere fa la camionista e si trova spesso a viaggiare da sola.
Le performance attoriali sono credibili. Da apprezzare, in modo particolare, la ricerca di un tipo di recitazione realistica, mai sopra le righe. Il tipo di recitazione è l’elemento primario che ci avvicina al protagonista: lo vediamo quasi sempre da lontano, per cui il tono della recitazione ce lo tiene vicino, lo tiene vicino alla realtà. Lo rende credibile e, soprattutto, lo rende simile a noi.
Fotografia e montaggio
Molto apprezzabile la fotografia, estremamente realistica, costruita su zone d’ombra imponenti e fonti di luce diegetiche. Il ritmo del montaggio è molto lento e permette di entrare nelle atmosfere e di empatizzare col protagonista. Quella di Mak è una vita lenta, e noi lo percepiamo così fin da subito. Una vita lenta che parrebbe poter essere svoltata dall’incontro con questa donna ma che, alla fine, resta esattamente com’era prima di fare la sua conoscenza. Il ritmo lento è sottolineato anche dall’immobilità della macchina da presa – che riflette quella staticità della vita del protagonista – e dalle poche azioni dei personaggi. Il film si regge molto sui dialoghi, che puntano a essere il più semplici possibili e ci palesano la banalità del quotidiano di Mak.
Due anime sole
La storia è quella di due esseri solitari. Consapevoli della loro condizione. Talmente soli da raggiungere la rassegnazione. Infatti, nel finale del corto, accade tutto in modo più che naturale. Non c’è tentativo di fuggire dalla propria situazione, né da parte di lui, né da parte di lei. Mak esce dal camion di Nada perché deve tornare a lavoro e lei non oppone resistenza, non cerca di persuaderlo a restare: sa che a breve anche lei dovrà tornare al suo lavoro e quindi ripartire da quella stazione di servizio. Tutto finisce nella più totale normalità e banalità. Tutto viene lasciato ai ricordi di quella notte passata insieme e la vita riprende, lenta, monotona, solitaria come sempre.
Attenzione a non cadere nel già visto!
Il tema della solitudine e dell’alienazione è centrale nel cinema e realizzare prodotti innovativi può risultare un’impresa ardua. Questo corto riesce però a portare una variazione al tema. Ci mostra uno scenario nuovo. La stazione di servizio è ferma, fissa in mezzo alla strada grande e ampia su cui si viaggia a gran velocità e ci porta – grazie al valore simbolico di cui si carica – a riflettere sull’immobilità della condizione del protagonista. Dalla vetrina della stazione di servizio, Mak vede il mondo andare avanti, procedendo rapidamente, mentre lui è sempre fermo. Allo stesso modo, le persone che hanno a che fare con lui sono sempre di passaggio. Tutti passano e poi se ne vanno. Non c’è neanche il tempo di affezionarsi più di tanto. Vedendo il corto noi capiamo che Mak è ben consapevole di questa condizione, la accetta e vive la sua vita, nell’attesa che questi fugaci incontri siano degli spiragli da cui far entrare un po’ di luce nel grigiore delle sue giornate.