In occasione dell’uscita su Disney+ il 24 ottobre del suo prossimo film, Dedalus, abbiamo avuto il piacere di fare una chiacchierata con il regista. Dopo una brillante carriera di studi, Gianluca Manzetti si è formato come sceneggiatore ma soprattutto come assistente alla regia di autori del calibro di Stefano Sollima, Ferzan Ozpetek e Sergio Castellitto. Nel 2019 ha diretto la seconda unità del cinecomic Dampyr prodotto da Sergio Bonelli Editore, Eagle Pictures e Brandon Box, mentre nel 2022 ha diretto le riprese di Roma Blues, la sua opera prima prodotta da Art Film Kairos e Rai Cinema con protagonisti Francesco Gheghi e Mikaela Neaze Silva.
Da dove nasce il progetto Dedalus. Dicci qualcosa del tuo processo creativo, di come si è sviluppata l’idea.
Certo. Il progetto, proprio parlando in termini di concept e scrittura della sceneggiatura, non nasce da me, ma nasce dal produttore in primis, che è Roberto Cipullo di Camaleo, che ha riunito un gruppo di lavoro, una writing room con Nicola Barnaba, Francesco Dominedo e Vincenzo Alfieri e poi me l’hanno proposto. Parlando con loro, quando ci siamo incontrati quello da cui sono partiti era – soprattutto per Roberto Cipullo – un disagio da genitore rispetto alle notizie di cronaca nera che si leggono sui giornali riguardo a una serie di situazioni analoghe di suicidi legati a dinamiche affini a quelle del film.
C’era una storia che mi aveva raccontato, che se non sbaglio non era neanche italiana, che l’aveva particolarmente colpito. Molto forte, molto dura. Da quello spunto lì poi è nata anche la voglia di fare un film che potesse raccontare questo tema all’interno del genere e quindi poi è subentrata l’idea del contest movie e quindi la voglia di fare un film che potesse essere una specie di Black Mirror, uno Squid Game all’italiana. Dopo aver visto, non mi ricordo se Roberto Proia o Cipulla, i miei cortometraggi, Sexy Boy e Friend in Me, che parlavano proprio del fake, che parlavano del dark side del mondo social e anche dopo aver visto Roma Blues, mi hanno proposto Dedalus. Mi ricordo che mi hanno detto, all’epoca, “se vuoi raccontare anche il lato oscuro dei sognatori questo potrebbe essere il film giusto”, perché Roma Blues racconta invece di un sognatore puro, un outsider che cerca di raggiungere i suoi sogni in maniera anche molto strampalata. Questo invece è un film molto più oscuro, molto più cupo, in cui la riflessione che volevo condividere era quella di trasmettere un messaggio di amore, perché poi l’assunto alla base di Dedalus è che il male genera male e secondo me questo implica che la strada migliore è quella del bene, dell’amore, del rispetto, della gentilezza, dell’empatia, del riflettere prima di fare qualcosa che può danneggiare qualcun altro.
Ho visto un potenziale molto alto anche a livello di riflessione e disagio alla base del film. Una cosa che tengo a dire è che non è assolutamente una visione di critica tout court e apocalittica rispetto al mondo social, che invece è un mondo che secondo me racchiude molte figure interessanti e che io seguo per primo. E quindi è un aspetto di quella realtà, l’aspetto più marcio, tossico e negativo della realtà social.
Nel film si nota una regia molto al servizio della sceneggiatura. Quanto è complesso lasciare un’impronta personale in un’operazione del genere?
Allora, questa ovviamente è una bellissima domanda e un bellissimo argomento di cui parlare. Spesso anche parlando con autori, registi, c’è la tendenza di voler lasciare un’impronta, una firma. Le mie riflessioni si stanno orientando su questo, cioè sul fatto che se tu hai uno sguardo preciso sulla realtà, qualunque storia ti ritrovi a trattare ci deve essere l’opportunità della dark comedy. Un genere che in qualche modo è sempre presente in quello che faccio. Quindi questi personaggi, questa umanità così cialtrona, così strampalata dei content creator, per quanto mi riguarda, era qualcosa che conoscevo molto bene e sapevo di poter raccontare, e non avrei saputo fare diversamente. Se il film fosse stato un film, anche nelle sue premesse, epico, io so che non sarei stato la persona giusta per raccontarlo. Adesso questo è il mio secondo film, immagino che a un certo punto verrà fuori una certa sensibilità e propensione rispetto a un certo tipo di umanità e a un certo tipo di tono anche. Per me comunque la tua visione può emergere anche da tutto il resto, dal modo in cui osservi dei dettagli, dall’umanità a cui ti senti più affine e che ti viene più facile raccontare. È ovvio che non è una dark comedy Dedalus, però mi piace molto la commistione di genere ad esempio. Sicuramente la mia fonte principale di ispirazione e di crescita è stata la commedia italiana in cui il dramma e la commedia si fondono. Anche se si tratta di una storia che non hai scritto tu, una volta che prendi in carico quel progetto, in un modo o nell’altro la tua sensibilità verrà fuori.
Come valuti personalmente, la tendenza di una parte del cinema italiano a privilegiare uno stile registico molto ricercato quasi da film d’arte e che spesso va a discapito della chiarezza narrativa?
Tra le poche cose chiare che ho c’è quella di riuscire a essere fruibile e di riuscire a coinvolgere più persone possibili, di appassionare un pubblico molto vasto perché reputo che quello che ho voglia di trasmettere a livello emotivo mi piacerebbe che arrivasse a un pubblico più ampio possibile. L’idea di fare qualcosa che possa parlare a poche persone, a pochi eletti a me personalmente non interessa. Non c’è un ingrediente segreto per essere più chiaro e intellegibile: è un argomento molto difficile. Credo che quando l’attenzione si concentra troppo su se stessi e troppo poco sulla condivisione, il rischio sia quello di cadere in un monologo autoreferenziale, autocelebrativo, che per me rappresenta l’esatto opposto di ciò che mi interessa fare. Un cinema vuole anche puntare a una ricerca visiva e quindi quella ricerca sarà un po’ una scoperta per chi riesce a comprenderla. Io invece sono molto interessato ad abbracciare il pubblico, a portarlo con me nella misura più ampia possibile. Ho capito una cosa meravigliosa del mio lavoro quando c’è stata una delle prime proiezioni di Roma Blues a un festival in Puglia che si chiama Sudestival, in occasione della quale poi sono rimasto un’ora con gli spettatori a parlare, a confrontarci su quello che è arrivato su quello che a me sarebbe piaciuto che arrivasse. Insomma mi piace molto questo del cinema. Il fatto che poi si parli, ci si scambi idee, ci si abbracci, si pianga insieme, si rida insieme.

È una sfida complessa, perché significa entrare nella mente di un’altra persona. E, sinceramente, non so cosa spinga davvero molti registi, autori o artisti che si muovono in ambiti più “da festival” o art house. Poi stiamo parlando anche di qualcosa di poco tangibile perché abbiamo messo tutti sotto il comune denominatore dell’art house, però ci sono dei lavori anche molto respingenti a volte, potenzialmente per dei tempi molto lunghi, delle inquadrature molto lunghe, una durata molto ampia. Quindi io non so bene capire cosa muova le intenzioni quel tipo di artista. Ti confesso che da cinefilo io comunque guardo tutto. Io sono interessato anche a chi magari fa un film un po’ monologo, anche difficile da recepire e analizzare, però spesso ne rimango affascinato, e sono magari tra i primi fan di tanti registi di questo tipo.
Tornando a Dedalus. Il film è attraversato da miriadi di citazioni: si va da Hal 9000 di 2001 Odissea nello spazio, fino ad Arancia Meccanica nelle sequenze finali con quel montaggio e con quella colonna sonora (La Gazza Ladra di Rossini n.d.r.). Poi si arriva a Truman Show. Quello che mi sono chiesto è: come sei riuscito a inserire questi riferimenti senza cadere nella banalità di una citazione fine a se stessa, riuscendo a integrarli organicamente nel film?
Questo aspetto qui è uno di quegli aspetti anche un po’ intangibili. Io cerco sempre di essere più sfumato, più in sottrazione possibile. Quando inserisco una citazione, come quella di Hal — che credo sia abbastanza riconoscibile — mi fa piacere sentirla definire “delicata”, perché io la percepisco come qualcosa di fortemente presente. È un omaggio a quello che, insieme a C’era una volta in America, considero il mio film preferito. Di conseguenza, la telecamera del totem che permea il contest Dedalus non poteva che richiamare quell’aspetto lì.
Quando con lo scenografo Alessandro Bigini stavamo scegliendo il tipo di telecamera siamo andati subito in quella direzione. A volte è molto vicino lo sguardo a quelle telecamere però credo, probabilmente, provo a ragionare con te, che risulta integrato perché non ho messo una telecamera che ricorda Hal 9000 per strada con un personaggio che cammina e si ritrova davanti la colonnina per pagare il parcheggio ecco (ride n.d.r.). È comunque un totem con una telecamera all’interno di un contest. Le telecamere sappiamo che possono avere un aspetto perché quella è una telecamera vera e propria, non ci siamo inventati nulla di artigianale e quindi può avere quell’aspetto che ci riporta subito, soprattutto se ripreso in dettaglio, su Hal 9000. Ci rimanda in qualche modo a chi ha visto il film.
Che poi è anche una doppia integrazione col monolito nero.
Sì è vero. Insieme fanno proprio la citazione di 2001 Odissea nello spazio. Però ripeto, probabilmente la questione è che si trovano comunque in un posto in cui ha senso si trovino come citazione. Non è qualcosa di gratuito messo lì così tanto per. Poi anche per quanto riguarda le divise nel loro concetto, ci siamo ovviamente interrogati per rendere credibile e appassionante, spettacolare, questo contest, come l’idea ad esempio anche di look del Dedalus, dell’organizzazione Dedalus. La riflessione fatta con la costumista Giorgia Maggi è stata di fare degli abiti adatti al contest e alla serata finale quando c’è il cambio di look e lì abbiamo fatto i conti con una lunghissima cinematografia di divise da contest. Banalmente si potrebbe pensare a Squid Game ma ci sono piaciute tantissimo anche le divise di Us di Jordan Peele che ci divertivano tanto. Poi è stato fatto un lavoro importante sui tessuti, anche se spesso queste cose non si percepiscono benissimo dalle inquadrature. Poi forse le divise sono anche la cosa, diciamo, a cui siamo più abituati negli ultimi anni con il cinema. Mi venne in mente anche La Casa di carta. È un po’ un’estetica degli ultimi anni che però nel film sicuramente ha il suo senso, anche per il tipo di film. In generale, comunque, credo che la citazione possa risultare ben integrata, se anche contestualizzata in qualche modo e motivata dalla narrazione. Tra l’altro io sono un grande appassionato di easter egg: non sempre li colgo ma quando succede, mi diverto tantissimo, mi piace esaminarli. Anzi secondo me il cinema italiano ha proprio bisogno di questo, quindi perché non farlo. Mi diverte molto questa cosa qua, il problema è quando si diventa troppo didascalici, diretti, frontali e scontati nella citazione. Insomma non è facile riuscire a farle e sono molto contento che tu l’abbia apprezzata.

Matilde Gioli in Dedalus
Gianluca, Dedalus non parla e, come anche accennavi prima, non vuole essere una critica così tranchant verso il mondo social e dei pericoli della parasocialità, che è un fenomeno che si sta sviluppando in questi anni, ma esplora anche i temi del lutto, della vendetta, temi che, tra l’altro, sono già proprio nel titolo Dedalus che richiama Dedalo con la caduta di Icaro. Ma secondo te in un’epoca così dominata dai social è cambiato un po’ il modo in cui viviamo il lutto e il modo in cui percepiamo la vendetta?
Allora mi piace molto il termine che hai usato che è parasocialità perché racchiude molto bene il senso. Io credo che in qualche maniera si stia un po’ perdendo, a forza di sovra informazione, a forza di tanta negatività degli ultimi anni tra COVID, guerre, tanti contenuti molto crudi che circolano, dinamiche diciamo di hater che cercano di rovinare la vita agli altri senza un apparente motivo, se non disagio personale, l’umanità. Credo che siamo un po’ in un’era in cui c’è tanto bisogno di un ritorno all’umanità, all’empatia, alla gentilezza, all’aiuto reciproco, al fare gioco di squadra. Quindi il rapporto con la morte di oggi è un rapporto che tendenzialmente notiamo per “fortuna”. Allo stesso tempo noi siamo anche un po’ anestetizzati perché abbiamo anche vissuto il periodo del COVID, capendo e toccando con mano un concetto che fino a quel momento pochi di noi conoscevano da vicino. Ecco credo che in qualche modo, rispetto alla morte, siamo un po’ agghiacciati ma allo stesso tempo anche un po’ anestetizzati, quasi abituati. Le nostre giornate vanno avanti comunque, nonostante ogni giorno ci troviamo davanti a cose atroci.
Da un altro punto di vista, però, penso che dovremmo fermarci tutti e smettere di fare quello che facciamo come se fosse una nuova pandemia e far sì che finisca il commercio delle armi, che finisca la violenza, che finisca il prevaricare gli altri. Questo darebbe vita probabilmente a una rivoluzione civile dalle proporzioni più grandi mai viste nella storia, ma chissà se accadrà mai. Probabilmente è quello che dovremmo fare tutti per porre fine alla sofferenza.
Ti lascio facendoti una domanda che ha a che fare con la scena di apertura del film. L’ho trovata molto forte e molto poco convenzionale per il cinema italiano. Mi è sembrato quasi che tu volessi dare un segnale al pubblico, un indirizzare lo sguardo verso qualcosa, quel qualcosa che poi ovviamente si sviluppa durante l’opera. Ci spieghi come e perché hai pensato a una scena così forte?
Certo assolutamente. Guarda allora nell’incipit del film era già previsto in sceneggiatura di raccontare un antefatto. E per farlo mi sono rifatto a quello che della realtà in cui viviamo più mi colpisce, ferisce, spiazza e spaventa, cioè quando all’interno della quiete, della festa, della felicità più spontanea, si inserisce, squarciandola, la brutalità, l’inaspettato che spesso irrompe nelle nostre vite e ci colpisce. Quindi, essendo un antefatto molto duro, ed essendoci anche una richiesta da parte della sceneggiatura, ho pensato di poter attingere a qualcosa che mi culla, che mi coccola, che mi provoca felicità e che poi, ad un certo momento, mi spiazza completamente. Perché in qualche modo è quello che succede anche nella struttura del film. Il film è quel film fino a un certo punto: tu pensi che stai vedendo un certo tipo di film e poi invece scopri qualcos’altro. È un po’ un’eco alla struttura.