Diretto da Christopher Petit e Emma Matthews, D is for Distance (2025), lungometraggio presentato al Festival dei popoli , è un film piuttosto particolare, difficile da definire. Per adesso, a rigor di comodità, senza troppi approfondimenti lo si chiamerà semplicemente come un documentario sul giovane Louis Petit – figlio dei due registi – un ragazzo affetto da epilessia.
Chris Marker insegna
Per incasellare, quindi, questo film, può essere utile accennare a uno dei maestri più grandi della storia del cinema: Chris Marker. Se andiamo a guardare un immaginario albero genealogico, è infatti impossibile non notare come ci sia – volontariamente o involontariamente – qualcosa di Sans Soleil all’interno del documentario di Petit e Matthews. Il film del 1984 era un viaggio mentale, antropologico e filosofico, un poema visivo che Marker intesseva sapientemente attraverso l’utilizzo di una voce narrante suggestiva, che si lasciava andare a riflessioni sulla memoria, l’essere umano, le immagini e più in generale la tecnologia.
Più che il diario di un viaggio intorno al mondo di un uomo, Sans Soleil era una sinfonia di concetti, di spunti estetici accostati tra di loro. D is for Distance, con le dovute proporzioni, sembra quasi tentare di mettersi su questa stessa scia del documentario – si passi il termine – “universale”, che, partendo da un filone principale riesce ad espandersi visivamente e teoricamente.
Uno sguardo sull’epilessia
L’argomento comincia, quindi, da un concetto estremamente personale, ovvero la narrazione, da parte dei genitori, della condizione clinica del proprio figlio. Attraverso lo sguardo – ma non la voce, prestata invece da Jodhi May – genitoriale, D is for Distance riesce immediatamente a far immergere lo spettatore in un mondo intimo. Esso si costruisce per buona parte attraverso le riprese casalinghe che i coniugi hanno girato lungo gli anni, documentando la crescita del piccolo Louis, l’insorgere dell’epilessia e i conseguenti trattamenti. Accanto a tutto ciò scorre una sorta di trama principale che vede la famiglia intenta in un roadtrip voluto, principalmente, dal padre.
Il film quindi narra innanzitutto di un dolore condiviso da tutto quanto il nucleo famigliare, in particolare quello di Louis – per ovvie ragioni – e quello di Emma, la madre. Il disagio, come anche l’amore di quest’ultima, attraverso i testi letti da May e le immagini mostrate, riesce a materializzarsi con forza tanto da risultare la leva trainante del film. Louis infatti, dal canto suo, non si racconta ma viene raccontato, non si mostra, ma viene mostrato.
Ciò potrebbe far pensare che in realtà il film fallisca nel suo intento divulgativo, ma è invece proprio tramite questo sentimento materno che in qualche modo si riesce a stare ancora più affianco al ragazzo. Si hanno a cuore non solo lui, ma tutta la causa intorno al trattamento dell’epilessia, alla lotta per promuovere un approccio efficace come quello legato alla cannabis che, invece, risulta essere stigmatizzato.
Un saggio trasversale
E se già questi sono elementi sufficienti per far pensare a un’opera ben costruita, D is for Distance decide di andare anche oltre. Il film è un’esplosione trasversale che, prendendo spunto proprio dalla malattia del ragazzo, dalla sua lotta che lo vede sospeso tra la coscienza e l’oblio, riesce ad ampliare l’argomento principale accostandolo ad altri spunti. D is for Distance è infatti anche un film saggistico, che riflette su diverse tematiche legate principalmente al rapporto che si ha con l’inconscio, alternando alle sequenze legate a Louis, riflessioni sull’arte, sulla mente umana, l’inconscio e il cinema.
Il film di Petit e Matthews, fra le tante cose, stupisce quindi anche per la sua ecletticità, che riesce ad incastrare argomenti apparentemente sconnessi tra loro come in un collage. Il rischio è quello di essere dispersivi, ma i due registi riescono comunque a tenere un filo del discorso che risulta essere incredibilmente coerente e, soprattutto, suggestivo e poetico. La storia di Louis diventa un punto di partenza per un viaggio stimolante sotto molteplici aspetti ma che, soprattutto, è capace di emozionare e di far percepire allo spettatore una tenerezza di fondo non indifferente, più forte dello pseudo intellettualismo che gli si potrebbe imputare, più forte della malattia.