Può un film natalizio parlare di fame, dipendenza e rapporti tossici? Di un paesaggio innevato che diventa lo scenario perfetto per raccontare la disperazione? Ultimo schiaffo di Matteo Oleotto, presentato nella sezione Panorama Italia di Alice nella Città, risponde sì, e lo fa con una forza disarmante. È una black comedy glaciale, fatta di gesti ruvidi e tenerezze nascoste, che racconta un Natale lontano dalle vetrine luminose e dai ricchi pranzi natalizi. Oleotto, già autore di Zoran, il mio nipote scemo, torna nella sua terra: nel Friuli Venezia Giulia. Sceglie Cave del Predil, un luogo fisico e mentale, dove la neve copre solo in superficie un mondo stanco, affamato, disperato ma ancora pulsante di umanità.
Prodotto da Staragara IT, in coproduzione con SPOK Films, RTV Slovenia e distribuito da Tucker Film, unisce la scrittura corrosiva alla delicatezza dei sentimenti. Trovando nei suoi protagonisti Petra e Jure, interpretati da Adalgisa Manfrida e Massimiliano Motta, un equilibrio fragile, come la neve che si scioglie non appena entra in contatto con il calore umano.
“È un piccolo sogno che si avvera… un film che contiene commedia, dramma, giallo e qualche scena di thriller. Un film che nasce dalla mia terra e torna a casa, proprio come me.”
Dichiara Oleotto.
Un Natale ai margini della sopravvivenza
Petra e Jure vivono in una roulotte ai piedi della montagna. Due fratelli senza niente, ma con tutto il necessario per farsi del male. Petra è un vortice, una donna che consuma il mondo e chi la circonda. Ha una lingua tagliente, un ego smisurato, e quella dipendenza dalla marijuana che diventa anestetico e condanna. Non compie buone azioni, se non seguite da doppi fini, detestabile, un po’ come Signe in Sick of Myslef.
“Sei proprio come tuo padre.”

Le viene esclamato. Ed è vero: Petra ha ereditato la rabbia, l’orgoglio, l’arroganza. Jure, invece, la purezza che quel mondo tenta di cancellare. Si tratta del suo contrario: ingenuo, buono e disarmante. Ama sua sorella anche quando lei lo umilia, la giustifica, la segue come un’ombra.
Il film di Oleotto parte da un’idea semplice e disperata: come sopravvivere quando non si ha nulla da perdere? Soprattutto durante il freddo natalizio, quando il calore di quelle festività appartiene solo a pochi. I due sono alla costante ricerca di denaro, ovunque: rubano, mentono, si arrangiano. Ma la loro salvezza sembra arrivare per caso. Un cane scomparso e una ricompensa promessa. Marlowe, il cane perduto, diventa la chiave di volta del racconto, il simbolo dell’amore incondizionato che Petra non riesce a dare e Jure. Lei lo vede come un’occasione, lui come un amico. Due sguardi diversi sulla stessa realtà.
Lo schiaffo come metafora e come linguaggio
Il titolo è già una dichiarazione d’intenti. Ultimo schiaffo non parla solo di violenza fisica, ma di quella invisibile, quotidiana, fatta di parole, silenzi e umiliazioni. Petra colpisce senza mani: il suo gaslighting costante è il modo con cui controlla il fratello e, forse, l’unico che conosce per non perderlo . Ogni insulto è uno schiaffo, ogni bugia è una ferita. Ma anche Jure, in silenzio, le restituisce il colpo, con la sua bontà disarmante, con la sua incapacità di odiare.
Oleotto costruisce un microcosmo familiare che è anche un ring morale. Tutti prendono schiaffi: fisici, simbolici, interiori. La madre, malata di Alzheimer, che continua a dire che uno dei suoi figli è morto, rappresenta la perdita di memoria collettiva, la frattura generazionale. In realtà, qualcosa muore davvero: la purezza, la fiducia, l’infanzia. In questo equilibrio di violenza e tenerezza, Ultimo schiaffo diventa un film sul fallimento dell’amore, ma anche sulla sua necessità. Perché, nonostante tutto, Petra e Jure restano uniti. Non li vediamo mai intraprendere strade differenti. Sono sempre loro.

Dentro la montagna: il buio come destino
La miniera abbandonata dove i due fratelli entrano con un carretto è la rappresentazione di un inferno moderno. Un luogo di scommesse clandestine, violenza e corruzione, che in piccola parte ci ricorda Mani Nude. Qui non esistono regole, solo la legge del più forte. È un girone dantesco nascosto sotto la neve, dove ogni colpo ricevuto è anche una prova da superare. Chi prende schiaffi deve restare in piedi, sembra dirci Oleotto, costruendo una metafora limpida. Chi vive al margine non può permettersi di cadere.
Il mondo sotterraneo contrasta con quello esterno, altrettanto freddo ma apparentemente “normale”. È come se la montagna fosse un organismo vivo, che inghiotte chi non riesce più a stare alla luce. Petra, trascinando il fratello in quel baratro, non fa che perpetuare il ciclo di autodistruzione. Eppure, sotto quella coltre di ghiaccio e colpa, si nasconde qualcosa di tenero: un legame malato ma indissolubile, fatto di dipendenza, paura e affetto.
La povertà come condanna, la speranza come gesto di resistenza
La roulotte, la madre in casa di riposo, i pasti saltati, le bugie quotidiane. Tutto parla di marginalità, ma anche di un’umanità testarda. Oleotto non giudica i suoi personaggi, li osserva. Li lascia sbagliare, tradirsi, perdonarsi. La loro povertà non è solo economica, è una condizione esistenziale. Vivono fuori dal sistema, senza futuro, senza appigli. Eppure, non smettono di sognare.
“E poi portiamo la mamma al mare?”
chiede Jure. Una domanda ingenua, quasi infantile, ma che racchiude l’essenza del film: la speranza non cessa mai di esistere.

L’ambientazione di Cave del Predil amplifica questo senso di isolamento. Il paese sembra dimenticato dal mondo, come se il tempo si fosse fermato. Ogni dettaglio contribuisce alla costruzione del tono: le strade vuote, i volti stanchi. Ma proprio in questo deserto emotivo, Oleotto trova la poesia. Il Natale, invece di essere festa e calore, diventa specchio del gelo interiore dei protagonisti. È un Natale diverso, fatto di necessità e di mancanza.
La fotografia del freddo e un Natale che non scalda
In Ultimo schiaffo i toni, invece di scaldare, ghiacciano. La fotografia è fredda, tagliente, più da thriller che da commedia natalizia. È un Natale senza magia, dove il bianco della neve non illumina ma soffoca, diventando quasi un muro che separa i personaggi dal mondo. Sandro Chessa costruisce un contrasto netto: fuori è tutto gelo, dentro la roulotte esiste l’unico calore possibile. È lì che i colori si fanno più morbidi, dove il disordine e la povertà prendono un tono quasi domestico, umano.
Il cane, bianco come la neve ma vivo e pulsante, diventa per Jure la sola fonte di calore. È l’unico essere che non lo giudica, che gli restituisce affetto senza chiedere nulla. In un mondo dove Petra pensa solo a se stessa, lui trova nel cane la sua ancora, il suo respiro. Quel contrasto tra il freddo del paesaggio e il tepore del loro piccolo rifugio racchiude l’anima del film: una storia di sopravvivenza, di umanità che resiste anche quando non c’è più spazio per la speranza.