‘Kabul’: la fiction Rai che guarda (finalmente) oltre il nostro ombelico
Prodotta da Rai, France Télévisions e ZDF, la miniserie di Adamik e Chajdas ricostruisce la fuga dall’Afghanistan dal punto di vista di chi restò indietro. Sobria, politica, necessaria.
Di cosa parliamo quando parliamo di Kabul? Di una capitale diventata simbolo della sconfitta dell’Occidente, della fuga, del caos, delle porte chiuse in faccia e degli elicotteri sul tetto. Ma nella nuova miniserie evento di Rai 3, Kabul, diretta da Kasia Adamik (Bark!) e Olga Chajdas (Imago) si prova – per una volta – a raccontare anche chi Kabul la viveva. O la subiva.
Kabul è un dramma realistico internazionale in sei episodi che intreccia finzione e ricostruzione storica. Non una docuserie, ma una fiction tesa, umana e politica, che riporta in prima serata uno degli eventi più traumatici della nostra contemporaneità: la caduta della capitale afghana nell’agosto 2021. E lo fa con uno sguardo europeo, ma con il cuore — finalmente — altrove.
Kabul La trama: cinque giorni di caos e scelte impossibili
Kabul si svolge nei cinque giorni successivi all’ingresso dei talebani nella capitale, seguendo una narrazione corale che esplora il disfacimento rapido di un ordine già fragile. Al centro, la famiglia Nazary: Baqir (Vassilis Koukalani) e Zahara (Darina Al Joundi), già in possesso di un visto francese, tentano di raggiungere l’ambasciata per salvarsi. Ma i loro figli compiono scelte opposte: Fazal (Shervin Alenabi) vuole restare e combattere per il futuro del Paese, mentre Amina (Hannah Abdoh) è combattuta tra il terrore di partire senza garanzie e la consapevolezza che restare significherebbe rinunciare alla propria libertà.
Intorno a loro, il giovane funzionario italiano Giovanni (Gianmarco Saurino) cerca di gestire il caos crescente dell’evacuazione, confrontandosi con dilemmi etici, pressioni istituzionali e la responsabilità — enorme — di decidere chi può passare e chi no.
Kabul e il racconto della guerra in tv: un altro sguardo
Negli ultimi anni, molte serie hanno provato a rappresentare guerre e crisi globali, spesso incanalando il conflitto in chiavi narrative familiari: spionaggio, controterrorismo, retorica della sicurezza. Titoli come Homeland (2011), The Looming Tower (2018), No Man’s Land (2020) hanno raccontato l’Afghanistan e il Medio Oriente da un punto di vista esterno, spesso occidentale.
Kabul si posiziona in controtendenza. Non c’è un complotto da sventare, né eroi in divisa. C’è un’attesa, un’ansia diffusa, un sistema che si sbriciola sotto il peso delle sue contraddizioni. Il punto di vista è ribaltato: questa volta, la guerra è vista da chi cerca un’uscita, non da chi decide dove aprire un varco. Una narrazione che non cerca pathos facile, ma che proprio per questo arriva con più forza.
Fiction con rigore: tra misura e tensione
Kabul si distacca nettamente dalla fiction italiana più convenzionale. È una serie che prende sul serio il proprio materiale narrativo: non addolcisce, non drammatizza in eccesso, non cerca scorciatoie emotive. La tensione è costruita con rigore, e le riprese (realizzate nell’ex aeroporto di Atene) restituiscono un’atmosfera credibile, lontana dal rischio della fiction “esotica”.
Il cast convince. Gianmarco Saurino (Maschile plurale) interpreta con sensibilità un funzionario sopraffatto dalla responsabilità, costretto a muoversi tra protocolli e disperazione. Ma è soprattutto Darina Al Joundi (Copilot), nel ruolo di Zahara, a brillare: la sua interpretazione è realistica, intensa, profondamente commovente. Una madre angosciata, ma ferma nell’amore verso la sua famiglia anche quando il sistema intorno a lei crolla. Non cerca la lacrima facile, ma emoziona con precisione e verità.
Produzione: un progetto europeo che parla con molte voci
Kabul è una coproduzione internazionale nata nell’ambito dell’Alleanza Europea, l’iniziativa congiunta tra RAI Fiction (Italia), France Télévisions (Francia) e ZDF (Germania), pensata per sviluppare progetti seriali che raccontino il presente da una prospettiva comune. Hanno partecipato alla realizzazione anche le case di produzione Cinétévé, 24/25 Films, Panache Productions, La Compagnie Cinématographique e Blonde Audiovisual Productions.
La serie è stata presentata in anteprima mondiale a Lille, nel Concorso ufficiale di Séries Mania 2025, e ha ricevuto lo Special Jury Prize alla prima edizione dell’Italian Global Series Festival, confermando il suo rilievo artistico e il respiro internazionale del progetto.
Un racconto che non fa sconti (quasi)
Kabul non indulge nel pietismo né nella drammatizzazione. Alcune sequenze sembrano tratte da cavi diplomatici o documenti ufficiali: cancelli che si aprono solo per pochi, promesse spezzate, silenzi che diventano sentenze. È un racconto sobrio, ma non freddo; politico, ma mai ideologico.
L’unica concessione — narrativa, più che ideologica — è forse in alcuni personaggi occidentali troppo lineari, quasi moralmente incontaminati. Ma il centro del racconto resta altrove: sono le voci afghane a guidare la storia, non a decorarla.
Conclusione: un segnale forte, che non deve restare isolato
Kabul è una delle serie più ambiziose e coraggiose della stagione Rai. Non è una fiction perfetta, ma è una fiction necessaria. Riesce a raccontare il caos senza spettacolarizzarlo, e la politica senza trasformarla in didascalia.
Nonostante la qualità e la profondità del racconto, la serie ha registrato uno share del 2,6%, un dato che non riflette appieno il valore dell’operazione narrativa. Forse, come ha osservato parte della critica, Kabul avrebbe meritato una campagna promozionale più incisiva, capace di trasformare l’uscita in un evento e non in un passaggio inosservato.
È un segnale forte: la televisione pubblica può — e deve — alzare lo sguardo. Oltre il nostro ombelico, oltre i commissari, oltre le trame rassicuranti. Le storie vere, quelle che scuotono, sono anche altrove. E aspettano solo che qualcuno — con coraggio e rispetto — le racconti.