Black Rabbit è una miniserie crime/thriller in streaming su Netflix dal 12 settembre.
Diretta da Jason Bateman, che firma anche i primi due episodi, e creata dalla coppia Zach Baylin (King Richard) e Kate Susman, la serie si sviluppa in otto episodi e vanta nel cast due nomi di peso: Jude Law nel ruolo del protagonista Jake Friedken e lo stesso Bateman, che interpreta suo fratello Vince. Accanto a loro, una solida Amaka Okafor nei panni della chef del ristorante, Cleopatra Coleman, e uno straordinario Troy Kotsur in un ruolo secondario ma memorabile.
La trama ruota attorno al difficile ricongiungimento tra i due fratelli Friedken, un tempo musicisti e ora co-fondatori di un ristorante a Brooklyn. Il loro passato ingombrante, le fragilità personali e i problemi economici li trascinano a compiere vari errori in un turbine di bugie e compromessi. Una discesa pericolosa fatta di debiti, vecchi rancori e scelte sbagliate.
‘Black Rabbit’: il trailer della serie con Jason Bateman e Jude Law
Black Rabbit Un viaggio pericoloso
A partire dal titolo Black Rabbit, che richiama l’idea del “rabbit hole”, il tunnel profondo e oscuro dove tutto si complica, la serie cerca fin da subito di presentarsi come un dramma psicologico metropolitano: tensione, atmosfera opprimente, scelte che portano alla rovina. Le premesse non mancano, ma il problema è che non sempre si ha voglia di seguire i protagonisti in questo abisso.
Jason Bateman ha dimostrato di saper interpretare il genere del crime familiare con maestria in Ozark, dove il suo Marty Byrde era un uomo all’apparenza normale che scivolava lentamente nell’illegalità per salvare la famiglia. Lì, però, la costruzione del personaggio era graduale, avvincente, ricca di sfumature. In Black Rabbit, il suo Vince è invece presentato subito come un uomo allo sbando: ex tossico, pieno di debiti, irresponsabile. Il risultato? Manca la tensione narrativa del “cosa farà adesso?” perché è già tutto a pezzi, e non c’è alcuna evoluzione.
Jude Law, dal canto suo, prova a tenere in piedi la storia con il suo Jake, imprenditore ambizioso ma fragile, ossessionato dal successo e dal voler apparire più in alto di dove realmente si trova. Ma anche lui finisce schiacciato . I suoi errori, rubare, mentire a chiunque, vivere al di sopra dei propri mezzi, non vengono bilanciati da un conflitto morale interessante.
La chimica tra i due attori c’è, ma non capiamo bene dove intendano andare i due personaggi. La relazione tra fratelli non ha abbastanza peso emotivo , rimane fredda, ingabbiata in una somma di traumi passati.
Poca anima

A livello estetico, Black Rabbit si sforza a sembrare altro: il ristorante, la colonna sonora, la fotografia cupa. Ma tutto questo non basta anzi infastidisce.
Dove Ozark costruiva una tensione crescente con personaggi sempre più divisi tra ciò che sono e ciò che devono diventare per sopravvivere, Black Rabbit si muove senza coerenza. Il tono è uniforme e non si crea mai vera suspense. Non c’è mai un momento in cui lo spettatore si stupisca davvero.
Chi spicca è Troy Kotsur, che ruba la scena con una performance potente. Il suo personaggio, il creditore di Vince, ha un carisma naturale, è un villain credibile e spietato, l’unico che davvero ha uno scopo reale, anche una sua etica coerente.
Concludendo? Black Rabbit vuole essere tante cose: un thriller psicologico, un dramma familiare, una critica sociale, un ritratto di una New York oscura. Ma corre troppo e in troppe cose dando l’impressione di dover rispondere ad aspettative troppo alte.
Peccato perchè parte benino con un cast che attrae ma si perde per strada.