Tra gli artisti ospiti della residenza creativa di Villa Medici il cinema è un fatto personale, con le immagini che si fanno artigianato unico. Così nel secondo giorno della sezione Contrechamp, la più libera e formalmente sfrontata, le fil rouge è quello della terra, intesa come l’unica fetta di mondo a cui appartenere. Abitarla per legittimare il sé, in un lucido ragionamento, fortemente radicato nel nostro presente storico.
Contrechamp n.2
The Yellow Speaks
Prima di ogni cosa però, bisogna dissezionare il passato, come fa la regista vietnamite Thun Van Tran nel suo The Yellow Speaks, affascinante sguardo etnografico di quattro minuti, dove i versi di una poesia si adagiano su una sequela di statue, realizzate da Jean Baptiste Belloc nel 1913 a Vincennes, per il Monumento dedicato all’espansione della gloria coloniale francese in Indocina.
“Il cinema mente” diceva Godard, ma a volte le immagini non fanno che esporre le loro verità e lamenti. Così quelle parole poetiche sui volti simulacri – “le donne sono diventate statue” o “tutto quello che mi resta da raccontare è l’amore qui” – risuonano come un grido di liberazione di queste statue dalla nomea di “razze” che insieme hanno edificato l’impero francese.
Let Us Persevere In What We Have Resolved Before We Forget
Dai fasti coloniali nella transalpina Vincennes si passa all’Isola di Tanna nel sud-ovest del Pacifico, sotto la lente indagatrice dell’americano Ben Russell, autore di un altro fine discorso su un popolo strappato alla sua cultura. Let Us Persevere In What We Have Resolved Before We Forget si cala in un villaggio in Oceania dove ogni giorno, dal 15 febbraio del ’57, viene devotamente issata la bandiera americana.
Il titolo che cita il Beckett di Aspettando Godot confessa e svela l’indolenza di una civiltà imprigionata nella venerazione dei coloni. Russel con la sua macchina da presa penetra in una terra fuori dal tempo, irrimediabilmente contaminata. Qui “gli americani hanno distrutto le tradizioni degli indiani rossi” racconta un vecchio saggio mentre ricorre alla memoria senza perdere di vista la modernità esportata dai bianchi, fatta di gusti e costumi globalizzati. E “adesso siamo felici – ripete – io, te, tutti lo siamo, ma che facciamo ora che siamo felici?”

C’è una tensione sempre più rumorosa tra questi film così intimi e universali al contempo, un trasporto pronto a sprigionarsi – o meglio, eruttare – nell’ultimo bellissimo film di questa sezione che è La soufrière di Werner Herzog datato 1977: prima traccia della fascinazione herzogiana verso la meccanica dei vulcani. Ad essa dedicherà altri due film come Dentro l’inferno (2016) e The Fire Within (2022), entrambi perle di traboccante umanità alle prese con la natura.
La soufrière
E La soufrière è stato anche tra i primi segni del suo caldissimo cinema del reale che non conosce confini per gli occhi della sua macchina da presa. Così nel 1976 l’sola di Guadalupa, dalla sopravvivenza appesa a un’imminente eruzione, appare desertica. Tutti gli abitanti hanno evacuato la città. Tutti, tranne un contadino che non conosce altra terra dove aspettare paziente la volontà di Dio. Herzog lo guarda con la sua camera meravigliata, nella costante ricerca di pieghe umane in mezzo al reale delle cose.