Yasi ha sedici anni. È appena arrivata a Teheran. Ad accompagnarla c’è sua cugina. È lì perché deve sostenere degli esami di inglese statali. Nulla di anormale, apparentemente.
Ma le ragioni che hanno spinto Yasi a compiere un viaggio così lungo e tortuoso vanno ben oltre dei semplici test: la ragazza deve porre fine, clandestinamente, a una gravidanza indesiderata.
Bitter Chocolate, diretto dalla regista iraniana Sahar Sotoodeh, e presentato al Sentiero Film Factory, è un pugno sullo stomaco, che arriva diretto e potente, senza lasciare alcuno scampo. In soli venti minuti riesce a raccontare tutto il trauma, il dolore, ma anche la forza e il coraggio di una giovane donna iraniana. È un corto che oscilla tra plumbea oppressione e inarrestabile forza di volontà, tra catene e libertà, tra vita e non-vita.
Grigio orrore domestico
La Teheran di Bitter Chocolate si limita a esistere in poche pareti, grigie e scarne. L’appartamento in cui Yasi entra non è un ospedale. Non ci sono medici, non ci sono strumenti sterili. È una casa come tante, con una madre di famiglia, un figlio adolescente, una figlia bambina e un’anziana nonna. Eppure, quel luogo di quotidianità e intimità si trasforma lentamente in qualcosa di perturbante. Una camera da letto diventa ambulatorio improvvisato, lenzuola e cuscini diventano strumenti di dolore. La donna che la accoglie non è un’aguzzina: sembra anzi comprendere e compatire la giovane, ma questo non attenua l’angoscia. È proprio lo slittamento del quotidiano verso l’orrore — silenzioso, necessario, clandestino — a far accapponare la pelle.
Ed è proprio qui che il corto colpisce più duro: il dolore non è un incidente, ma un passaggio obbligato. Non ci sono alternative. Il diritto all’aborto dovrebbe essere un diritto universale, accessibile, sicuro. Invece, per Yasi, resta solo clandestinità e paura. A sedici anni è già costretta a sopportare il trauma della scelta, e a subirlo in condizioni che amplificano la sofferenza in modo atroce. Sotoodeh mette lo spettatore davanti a questa realtà senza sconti: abortire in Iran nel 2025 significa affidarsi ad altre donne che, con mezzi di fortuna e nel silenzio delle mura domestiche, praticano interventi rischiosi, dolorosi, spaventosi. Il corpo della donna, già provato dalla decisione, diventa così il teatro di un supplizio ben più grande: dover esistere, o meglio resistere, in una società crudelmente maschilista e oltre ogni modo opprimente. Una macchina dell’orrore pronta ad ingoiare ogni dissenso, e disposta a tutto pur di non perdonare mai.

La forza delle pareti
Sahar Sotoodeh sceglie di girare quasi tutto in interni, e non è solo una scelta produttiva. Quelle mura grigie, semplici e spoglie, diventano prigione, gabbia, simbolo tangibile della condizione femminile in Iran. Non ci sono vie di fuga: l’oppressione si addensa nello spazio chiuso, amplificata da silenzi che pesano quanto urla mai pronunciate. L’appartamento diventa così microcosmo di un’intera società che relega il corpo della donna a terreno di controllo, a luogo di colpa e clandestinità.
Ma Bitter Chocolate non si ferma a questa metafora. Sotoodeh mostra come la casa — lo spazio che culturalmente dovrebbe essere rifugio, intimità, protezione — possa trasformarsi nel suo contrario: un teatro di dolore, un ventre che custodisce segreti troppo grandi per le sue mura. Ogni stanza diventa un varco di tensione, ogni oggetto domestico è deformato dal contesto, come se l’oppressione avesse contaminato anche i gesti più comuni. In questo claustrofobico gioco di specchi, l’appartamento diventa simbolo universale: non solo prigione iraniana, ma rappresentazione di tutte le volte in cui lo spazio privato si fa gabbia.
La più amara delle scelte
Ma è la bambina a incarnare l’elemento più disturbante. Non fa nulla, se non mangiare un pezzo di cioccolato amaro. Un gesto innocente, quotidiano, che in quel contesto diventa un atto mostruoso, quasi insostenibile. La sua presenza destabilizza: non perché rimandi a un paragone biologico o morale, ma perché è un corpo innocente dentro una scena di dolore, un’energia vitale che stride violentemente con l’ombra della sofferenza. Il suo semplice atto di esistere insinua un potenziale dubbio, aumentando esponenzialmente la sofferenza della scelta.
Sia chiaro, la bambina non ha colpa, non è nemmeno un simbolo imposto, ma è la sua inconsapevolezza a renderla così ingombrante, così inquietante.
Proprio qui Bitter Chocolate mostra la sua lucidità politica: non suggerisce che Yasi stia negando qualcosa, ma che la società iraniana neghi a lei — e a tutte le donne — la possibilità di compiere scelte libere, sicure e dignitose. La bambina diventa allora il segno tangibile della contraddizione: cresce protetta in una casa che, nello stesso momento, ospita un atto doloroso e segreto. Innocenza e oppressione si toccano nello stesso spazio, ed è questo cortocircuito a scuotere lo spettatore fino al disagio.

Quando nemmeno il cioccolato è rimasto dolce
Bitter Chocolate è cinema che non consola. È un racconto che pesa e che deve pesare. Perché parla di corpi adolescenti costretti a scegliere troppo presto, di vite private inghiottite da leggi che negano libertà elementari, di dolore consumato in silenzio, lontano da sguardi e riconoscimenti. Sotoodeh non cerca estetismi né metafore consolanti: il suo cinema è diretto, ruvido, claustrofobico.
Il titolo, poi, funziona come un colpo di lama. Il cioccolato amaro della bambina è la perfetta immagine di questo corto: un gusto che dovrebbe essere dolce, ma che viene corrotto da una nota aspra, dura, impossibile da ignorare. Innocenza contaminata, infanzia che diventa spettro, dolcezza che si spezza in bocca.
Il finale lascia senza respiro. Non chiude, non libera, non consola. Resta sospeso, come sospese sono le vite di milioni di donne costrette a muoversi nell’ombra, a nascondere, a subire. È la forza del corto: non raccontare una vicenda isolata, ma farsi eco universale. In venti minuti, Bitter Chocolate riesce a condensare dolore e coraggio, oppressione e ribellione, intimità e tragedia.
Sahar Sotoodeh firma un’opera necessaria, spietata e fragile allo stesso tempo. Un cinema che ferisce, che disturba, che costringe a guardare dove non si vorrebbe. Perché solo attraversando l’amaro è possibile capire fino in fondo il peso della dolcezza negata.