Il western è un genere particolare, il cui pensiero, oggi, rimanda a una dimensione quasi mitologica, a un passato lontano che nella contemporaneità può tornare solo tramite due modi, tramite due prefissi: neo e post. Da una parte si ha la ricontestualizzazione moderna del genere, si ricerca l’eco delle grandi valli, delle contrapposizioni morali, delle lotte tra i rappresentanti della legge e quelli che, invece, la rifuggono. Dall’altra c’è la volontà di guardarsi indietro, di attuare una sorta di operazione autoriflessiva per constatare le molte rughe imposte dal tempo e ricordare altri tempi, altri mondi con fare a volte critico, altre nostalgico. È da quest’ultimo lato della medaglia che si posiziona Deep in my heart is a song.
Tell me a story old man
Nel cortometraggio diretto da Jonathan Pickett, in concorso al Sentiero Film Factory, tale discorso riflessivo e meditativo diventa ancora più calzante se si pensa che l’attore Johnny Bencomo, che ha partecipato alla scrittura del film, interpreta sostanzialmente sé stesso: un vecchio cowboy e cantante country. E Deep in my heart is a song, forte di questo impianto memoriale e riflettente, inizia proprio con l’uomo che, su un voice-over, racconta un aneddoto di quando, dopo una sua esibizione in un bar, un giovane gli chiese di narrargli una storia delle sue. Johnny all’inizio è reticente, ma, eventualmente, cede.
La storia raccontata da Bencomo – e quindi la storia del corto – non è però nulla di avvincente nel senso classico del termine, non è una storia di inseguimenti, sparatorie e stalli alla messicana. È la storia di un’esibizione particolare commissionata a Johnny qualche tempo prima, quando una donna, la cui anziana madre – grande fan di musica country – sta morendo, contatta il cantante per organizzare un concerto privato per il genitore.
Nella sua parte finale, nell’incontro tra Johnny e la madre della donna, il corto raggiunge il suo climax a livello narrativo e formale. Jonathan Pickett fa esplodere la miccia scatenando un atto conclusivo emotivo, in cui la musica suonata da Johnny diventa un ponte che permette allo spettatore – e al protagonista – di avvicinarsi alle memorie della moribonda, di vederle tangibilmente attraverso l’esposizione di una carrellata di foto.
Le note di una calda nostalgia

Pickett attua una messa in scena delicata, contemplativa ma anche documentaristica, soprattutto nella prima parte del film dove i protagonisti sono Johnny e la sua routine. Lo si vede da vicino, mentre si prepara un pasto la sera, o di giorno, quando insieme al suo cane si sta occupando di ritoccare una delle sue chitarre. Le cose cambiano quando si presenta nella casa della donna che lo ha contattato, quando a diventare centrale è il legame che instaura con due estranee.
Deep in my heart is a song è un film che trascina con dolcezza lo spettatore all’interno di un setting dalla facile comprensione, che riprende gli ambienti del western – i saloon, le distese polverose, i ranch – e i suoi soggetti – Johnny, nonostante la vecchiaia, riveste i panni ideali del cowboy errante – maneggiandoli con delicatezza, come se fossero fragili.
Per questo, il corto di Jonathan Pickett stupisce. Stupisce per come arriva a condensare in maniera così sintetica una storia efficace, che tocca le corde giuste in maniera puntuale unendo il tutto a una regia, a delle musiche e a delle interpretazioni degne di nota. Queste caratteristiche rendono Deep in my heart is a song un corto da non trascurare, che riesce a forare lo schermo attraverso lo sguardo penetrante di Bencomo, attraverso quella sua musica capace di evocare una calda nostalgia sul volto di un’anziana signora a cui non rimane molto da vivere.