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‘Viale del tramonto’. Il crepuscolo degli “dèi”
La caduta nel baratro della follia di una ex-diva del muto
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2 mesi agoon
L’asfalto di una strada corre veloce sotto l’occhio della cinepresa mentre i titoli di testa scorrono sullo sfondo grigio sporco e una musica drammatica, cupa, li accompagna. Poi, l’inquadratura si allarga e la macchina da presa ci mostra un viale deserto: è il Sunset Boulevard, l’iconica strada dei divi a Hollywood.
Inizia così Viale del tramonto (Sunset Boulevard) tra i più famosi e significativi film che Billy Wilder, austriaco di origini ebree, fuggito negli Stati Uniti a seguito delle politiche antisemite di Hitler, realizzò dopo La fiamma del peccato e Giorni perduti, pellicole con le quali Viale del tramonto possiede più di un punto in comune. Film noir che precedono nella filmografia di Wilder famose commedie quali , fra le altre, Sabrina, Quando la moglie è in vacanza, A qualcuno piace caldo, Baciami, stupido, L’appartamento.
Un cadavere galleggia in una piscina
Dopo l’incipit Wilder immerge fin da subito il suo pubblico nelle atmosfere tragiche del film, inquadrando un cadavere che galleggia a faccia in giù in una piscina. Una voce off ci racconta “come è andata realmente” e perché alle cinque del mattino, in una villa sul Sunset Boulevard, stia arrivando la polizia con il solito codazzo di cronisti: “è successo un fatto grosso, di quelli di cui ne parleranno i giornali, la radio e anche la televisione”, essendo coinvolta una famosa diva del cinema. La stessa voce narrante ci avvisa di come sia stato “appena trovato il cadavere di un giovanotto con due pallottole in corpo. Non era di certo una personalità ma solo uno scrittore di soggetti di poca importanza. Poveraccio, gli piacevano tanto le piscine, e ora ne avrà una tutta per sé”.
A questo punto Wilder e il direttore della fotografia John F. Seitz compiono qualcosa di poco comune, inquadrando il cadavere frontalmente grazie a un gioco di specchi, a simulare una macchina da presa posta sul fondo della vasca mentre filma verso la superficie dell’acqua.
Il morto non è altri che il protagonista Joe Gillis (William Holden), uno spiantato sceneggiatore di Hollywood i cui lavori vengono sistematicamente rifiutati dai produttori. Ma la cosa di rottura rispetto ai normali canoni fino ad allora adottati, è che la voce che sentiamo fuori campo – e che ci introduce a un lungo flashback che durerà per la quasi totalità del film – è quella del morto.
Tutto il film è un lungo flashback
Un flashback che inizia sei mesi prima, nel momento in cui Joe, per sfuggire ai creditori che vogliono sottrargli l’automobile non pagata, fugge nascondendosi nel garage di una vecchia villa sul Sunset Boulevard. Una casa dall’aspetto tetro, all’apparenza deserta ma, in realtà, abitata da Norma Desmond (Gloria Swanson), una vecchia diva del cinema muto scivolata nell’oblio dopo l’avvento del sonoro, e dal suo maggiordomo Max (Erich von Stroheim), che altri non è che un ex grande regista, nonché primo marito di Norma, e che, per amore della donna che, nonostante tutto continua a venerare, ha accettato di interpretare la parte del fedele cameriere-chauffeur.
Ossessionata dal passato, convinta che il cinema sia morto con l’avvento del parlato, Norma, che si illude di possedere ancora un grande seguito ignorando che le numerose lettere di ammiratori sono in realtà opera di Max, trattiene Joe presso di sé per lavorare al folle progetto di una sceneggiatura per un film muto su Salomé diretto da Cecil B. De Mille che le permetterebbe di tornare a calcare le scene.
Joe diventa così il mantenuto di una donna non più giovane persa nelle proprie ossessioni che, nel momento in cui il giovane si innamora, ricambiato, di Betty (Nancy Olson), compirà il gesto fatale che ci riporterà al presente e al drammatico finale.
Un film su cui aleggia un opprimente senso di morte
Viale del tramonto utilizza alcuni elementi tipici del genere noir, come la voce fuori campo e i flashback, per costruire un intreccio che consente la lettura del film su vari piani, identificabili con i vari personaggi che diventano simboli di un mondo che sta, inesorabilmente, scomparendo.
Come già accaduto in La fiamma del peccato, anche in Viale del tramonto ritroviamo quell’opprimente senso di morte che permea ogni scena, ogni discorso, ogni inquadratura. Tutto ciò che vediamo, sin dall’incipit con il cadavere di Joe che galleggia nella piscina, sa di morte. Su tutto il film aleggia una sensazione sgradevole, che porta a pensare che tutto ciò a cui assistiamo non possegga alcun soffio vitale e sia destinato a scomparire, lasciando dietro di sé soltanto ombre, fantasmi. Esattamente come la voce di Joe che ci accompagna durante la visione ma che, sin da subito, sappiamo essere la voce di un cadavere.
Wilder gioca con questa impressione, sembra quasi volerci scherzare su nel momento in cui Joe viene scambiato, in una situazione grottesca, per un necroforo giunto a seppellire la scimmia di Norma appena defunta. Ma questo “scherzo” non è che un modo per introdurci ancor più in un mondo scomparso, quello di un cinema ormai appartenente al passato, popolato da reduci decaduti dalla loro condizione divistica e destinati all’oblio.
Norma Desmond ne è l’esemplificazione, così come lo sono i suoi compagni di bridge, ex-attori che, per via della loro scarsa fonogenia, sono stati esclusi dallo sfavillante mondo hollywoodiano e relegati a una condizione di fantasmi viventi. Fra questi spicca il personaggio interpretato da Buster Keaton che, emblematicamente, pronuncia per due volte la parola “passo”, come a sancire l’abbandono della scena e l’allontanamento da un mondo che lo ha reso grande e ora ne fa un invisibile.
Così come fantasma è Max, ex-regista ed ex-marito ridotto a essere il silenzioso servitore dell’ex-diva. Colui che scrive false lettere di ammiratori e simula finte telefonate di De Mille allo scopo di assecondare la pazzia dell’attrice, la quale obbliga Joe ad assistere alla proiezione privata di Queen Kelly, a sua volta pellicola fantasma dell’epoca del muto, diretto proprio da Erich von Stroheim e interpretato dalla stessa Gloria Swanson (entrambi figure di spicco del cinema antecedente al sonoro). Film mai distribuito fino al 1985 per problemi vari (riproposto ora all’82ª Mostra del cinema di Venezia).
Tutto trasmette morte in Viale del tramonto: la villa decadente, la piscina inizialmente vuota dove scorrazzano i topi, gli interni della casa ricolmi di oggetti che rimandano a un passato ormai finito, l’imponente e anacronistica Isotta Fraschini parcheggiata in garage. Così come nasce già morta anche la storia d’amore fra Joe e Betty, vista l’incapacità da parte dell’uomo di confessare alla ragazza la sua condizione di mantenuto.
Un mondo di tenebre che la luce non riesce a penetrare, in cui anche chi è ancora vitale, come Cecil B. De Mille (nella parte di sé stesso) viene fagocitato dal mondo ormai irreale di Norma nel momento in cui l’attrice gli fa visita presso gli Studios in cui si sta girando Sansone e Dalila. Perché sono proprio coloro che non appartengono (ancora) al mondo delle ombre a non essere in grado di afferrare l’opportunità che gli viene presentata: quella di trarre ricchezza da quel mondo che sta scomparendo: “un’offerta segreta, e vitale, che il cinema del passato vorrebbe fare al cinema del presente, e che non viene colta”[1]. È il caso di Joe Gillis incapace di percepire la carica vitale che traspira dalle immagini di Queen Kelly.
“Io sono grande, sono i film che sono diventati piccoli”
Alla sua uscita il film venne visto da alcuni esponenti della comunità cinematografica come un attacco all’industria cinematografica. In realtà l’opera di Wilder è stata riconosciuta da subito come un classico “per le sue intuizioni profonde sull’ambizione, l’invecchiare, la popolarità e la sua perdita e, non ultimo, sulla scomparsa della leggendaria aura di Hollywood alla metà del secolo”[2].
Ma il film di Wilder è, soprattutto, una dura critica al cinema hollywoodiano e a tutto ciò che ruota intorno allo star system e agli Studios che tutto macinano e distruggono, soprattutto i sogni. Un mondo costruito sull’immagine che, nel momento in cui viene a mancare, crolla trascinando con sé coloro che grazie a quella immagine erano restati vitali, nutrendosene.
Un cinema ormai tramontato che Norma Desmond non si rassegna a perdere, non ammettendo che possa esserci un nuovo cinema che la rifiuta e che, a sua volta, lei rifiuta (sul set di Sansone e Dalila la vediamo allontanare con sdegno un microfono che la sta infastidendo, mentre De Mille fa di tutto per sbarazzarsi di quella presenza inopportuna). Un cinema diventato, per la vecchia diva del muto, talmente insignificante da stigmatizzarlo con la frase: “Io sono grande, sono i film che sono diventati piccoli”.
E di quella grandezza Norma se ne ammanta, in un finale dove la follia esplode dopo la morte di Joe, dando vita all’ultima rappresentazione sotto gli occhi sbigottiti di poliziotti e giornalisti, con Max/De Mille a simulare le riprese per un ultimo e definitivo ciak inquadrando Norma/Salomé mentre scende lo scalone accompagnata dalla musica drammatica e solenne di Franz Waxman, regalandole, così, un ultimo momento di gloria in una delle scene più potenti della storia del cinema per drammaticità e crudeltà.
Poi, una dissolvenza sul volto di Norma, farà calare il sipario su un mondo definitivamente scomparso.
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[1] Alessandro Cappabianca. Billy Wilder, Il Castoro cinema, 1995, p. 44
[2] Robert Sklar, Il cinema americano, 1945-60, in Storia del cinema mondiale. Gli Stati Uniti, II, Einaudi, Torino, 2000, p. 1105.