Dopo la scalata alla perfezione (anche se, secondo una delle battute più celebri di tutti i tempi, “nessuno è perfetto”), un altro film di ineguagliabile levatura, per scioltezza di stile, battute pungenti e fulminanti, ritmo infallibile, personaggi a tutto tondo, una morale che è come un abbraccio. Così, dopo il successo di A qualcuno piace caldo (1959), Billy Wilder firma l’anno successivo L’appartamento (The Apartment), capolavoro tra i classici della commedia americana.
Una commedia agrodolce sul valore della statura dell’umano, in mano alle trappole della modernità. La tragedia dolcemente ilare e caustica su un uomo comune che può emanciparsi grazie e nonostante la solitudine dei sentimenti. Con Jack Lammon e Shirley MacLaine in sfavillante forma, L’appartamento è disponibile gratuitamente su RaiPlay e a noleggio su Amazon Prime Video.
Sinossi
Lo scapolo C. C. Baxter, umile impiegato in una grande compagnia di assicurazioni di Manhattan, tenta la scalata professionale prestando il suo appartamento ai superiori per avventure extraconiugali. Il medesimo favore concesso al signor Sheldrake, capo della compagnia, sembra assicurargli il successo agognato.
Fino a quando Fran Kubelik, deliziosa addetta all’ascensore e ragazza dei suoi sogni, si reca nell’appartamento proprio con Sheldrake, di cui è divenuta l’ultima amante. Nel frattempo, un vicino di casa di Baxter, un medico ebreo europeo, cerca di insegnargli a essere un Mensch, una persona perbene, un vero essere umano.
Un capolavoro di ottima annata
Non è facile aggiungere un contributo inedito su una pellicola che ha fatto epoca nelle scuole della commedia americana, seppure sia meno citata e proverbiale di altre pietre miliari di Billy Wilder come Viale del tramonto, Quando la moglie è in vacanza, A qualcuno piace caldo, che riflettono lo fulgore del divismo (Marilyn Monroe) o il suo sinistro e sardonico capitombolo (Gloria Swanson).
È possibile, nella straordinarietà da manuale del film, tentare la strada di un piccolo percorso per immagini, motivi, temi, suggestioni. Perché L’appartamento, oltre ai suoi percettibili meriti filmici, segna un crocevia nel percorso registico di Billy Wilder. Si offre come un salto, ben congegnato, nel vuoto di una svolta nella società occidentale, nella storia del costume e del progresso economico. Instillando, tra le righe della sceneggiatura pressoché inappuntabile di Wilder e del fidato I. A. L. Diamond, un ripiegamento più acre, un umorismo più struggente, una critica politica più mirata, una comicità meno spumeggiante ma più matura.
È il film che per primo, fra quelli da lui diretti, si affaccia sulle soglie di nuove sensibilità delle abitudini sessuali e dei consumi, dell’emancipazione femminile e delle attrattive di svago del cittadino medio. Nell’eco degli imminenti cambiamenti epocali dei favolosi Sixties, L’appartamento rientra anche nel luccicante novero di pellicole del 1960 che sono parte dell’immaginario collettivo o della storia del cinema, sfornate in un anno baciato dal genio di molti registi di ogni nazione. Da Psyco a La dolce vita, da Fino all’ultimo respiro a Rocco e i suoi fratelli, da L’avventura a L’occhio che uccide.
Lo spazio. La metropoli che non c’è
Ad eccezione delle vedute aeree iniziali su Manhattan, con la voce narrante che sviscera numeri e statistiche sugli abitanti della Grande Mela, nel resto della pellicola la città scompare e restano due forme di sineddoche, due parti che rappresentano il tutto: l’appartamento e il grattacielo della compagnia assicurativa di Baxter, avvolti nel bianco e nero di Jospeh LaShelle.
Spazi realistici agli antipodi per estensione e scenografia (uno dimesso e disordinato, l’altro mastodontico e tirato a lucido) che, sotto la regia di Wilder con i suoi collaboratori, diventano l’epitome della spersonalizzazione dell’individuo nell’era, ormai crepuscolare, del boom economico, della solitudine annichilente degli yes men, della parcellizzazione dell’umano nella macchina aziendale, della noia paradossale nel fragore metropolitano.
Centinaia di scrivanie e uffici come isole espugnabili di carrierismo, favori e rancori. Macchine da scrivere che dettano ritmo e legge, più di vent’anni dopo gli ingranaggi industriali di Tempi moderni. Unico motore sociale (nonché principale mezzo di trasporto effettivo del film) un ascensore che può far salire fino alla vetta del business, ma anche far precipitare giù, in un batter di diniego. Nel mezzo, tra perdigiorno in giacca e cravatta e segretarie civettuole, una folla di impiegati: l’anonimato della massa che si riversa qui, come per le avenue di una metropoli omessa, di cui il grattacielo stesso è un continuum.
Lo spazio. L’appartamento sempre occupato di uno scapolo
Di contro, l’appartamento diventa lo spazio di un’intimità un po’ decadente, persino squallida e ingrigita quando si tramuta nel teatro delle scappatelle dei superiori in fregola. Uno spazio ben presto da difendere e da riconquistare per C.C. Baxter, in parallelo alla propria dignità, al proprio essere Mensch.
E qui Billy Wilder puntella lo spazio domestico di dettagli che trasudano empatico senso di solitudine, affetto per un perdente, la mestizia dei compromessi del vivere quotidiano. Complice la performance di Jack Lammon, con la sua versatilità comica in sinergia con gli oggetti: la tv delle pubblicità, la racchetta come scolapiatti, i calzini spaiati.
Lo specchio. Il riflesso della scoperta e dell’ineluttabile
Ci sono due specchi che svolgono una funzione fondamentale nell’appartamento. Rivelatori, devianti, fatali. Tra gli innumerevoli accessori che le amanti dei dirigenti aziendali perdono o dimenticano nell’appartamento di Baxter, vi è anche uno specchio da borsetta. Infranto, come le possibilità di agguantare anche solo una fugace possibilità di felicità nell’oasi sfilacciata del forsennato capitalismo newyorkese. Uno specchio che aprirà gli occhi al protagonista sulla vita privata della ragazza tanto desiderata. E un altro, giocando sull’effetto del controcampo riflesso, sarà fonte di drastiche decisioni (senza rivelare oltre).
Lo specchio, il doppio. Come in altri suoi film Wilder gioca sulla duplicità di situazioni e personaggi, sui binari collaudati di una rappresentazione senza sforzi apparenti , con la sua macchina da presa precisa, invisibile, classicissima. Coadiuvato dalla forza trainante della sceneggiatura, dissemina elementi di specularità, complementarietà, opposizione.
Fran Kubelick non riconosce in Baxter la sua anima gemella, il suo doppio maschile; inoltre, a causa dei due specchi rivela all’altro ciò che purtroppo è oppure compie ciò che non dovrebbe fare. Baxter invece si proietta con gagliardo arrivismo sul principale, il signor Sheldrake, quando nel suo vicino di casa si trova un più auspicabile modello di virtù: il dottor Dreyfuss, un Mensch. Indecisioni, blocchi, falsi miraggi: quasi una sinfonia prosaica della vita e del suo, finalmente, ritrovarsi.
La festa. Il carnevale dell’introversione
Alle soglie del Natale fino alla sera di Capodanno. L’intreccio sentimentale si snoda tra queste festività che il regista austriaco mette in scena con un controllato sfarzo mitteleuropeo (allo stesso modo è pervasa di sensibilità mitteleuropea quella poetica degli oggetti rivestiti di una certa animosità nel corso del dramma, dagli specchi alla busta con i cento dollari, fino al gioco delle carte).
Tra addobbi natalizi, stelle filanti e cappellini di carta, Wilder filma un cantico carnascialesco degli sconfitti, dei delusi, dei cuori solitari. Una coincidentia oppositurum tra euforia di massa e introspezione individuale, dove i personaggi sono messi a nudo nella loro fragilità, a distanza dall’oggetto da poter amare.
Come se Natale e Capodanno fossero una maschera sociale sopra la solitudine e l’abbandono, una formula già sperimentata in Viale del tramonto, dove la trasfigurazione grottesca della diva dimenticata Norma Desmond (Gloria Swanson) sfiorava la farsa più desolante in un party per l’anno nuovo. Lì il regista bersagliava il lato più cinico e nero del mito di Hollywood. Qui, invece, come nella migliore tradizione popolare del carnevalesco, a cadere, ben presto, sarà la corruzione dei potenti e l’ipocrisia beffarda dei vincenti apparenti.
Conclusioni
Commedia amara e rincuorante dove sono dosate in egual misura e in miracolosa continuità umorismo e tragedia, morte e rinascita, affondo sociale e libertà sessuale, desolazione e lieto fine. L’appartamento, inoltre, non può inoltre essere esaminato senza la nota di merito dei suoi due interpreti principali. Jack Lemmon con intatta maestria riesce a scolpire un velo di malinconia sulla sua comicità travolgente e tenera, mentre Shirley MacLaine, premiata con la Coppa Volpi alla Mostra di Venezia del 1960, si destreggia, tra riservata sensualità e intelligenza di carattere, in un ritratto sfumato su una ragazza sfortunata e un po’ persa, ma sempre vitale e autentica.
Proprio l’interpretazione di Jack Lemmon, che gli valse importanti riconoscimenti, fu di ispirazione a Kevin Spacey, uno dei suoi più strenui ammiratori, per American Beauty. Mentre Martin Scorsese pare essersi ispirato alla sequenza della frivola e chiassosa festa in ufficio per il baccanale aziendale in The Wolf of Wall Street. Una pellicola, dunque, ricordando il delicato e romantico finale, che distribuisce a tutti generosamente le sue carte.