Alice in Borderland è stata diretta da Shinsuke Sato, regista giapponese noto per la sua abilità nel tradurre in immagini mondi distorti e surreali. Sato, la cui filmografia comprende altre opere tratte da manga e adattamenti live-action, ha saputo infondere alla serie quella tensione e quel ritmo narrativo che la rendono profondamente coinvolgente.
La produzione è stata realizzata come Netflix Original, il che ha permesso una cura particolare nella scenografia e nelle ambientazioni, elementi chiave per trasportare lo spettatore in questo universo alternativo. Inoltre, Netflix si è occupata sia della produzione che della distribuzione della serie, garantendo così una distribuzione globale e l’accessibilità in moltissimi paesi, contribuendo al successo internazionale del progetto.
Per Sato, il manga di Haro Aso è diventato una sorta di “bibbia” da rispettare e interpretare allo stesso tempo. Non lo conosceva prima, ma ne è rimasto colpito per l’intensità emotiva e il potenziale simbolico. Alice in Borderland, dice, non è solo un survival: è una storia sull’identità, sul senso della vita, sulla volontà di restare umani in un mondo che spinge a disumanizzarti.
L’uso della violenza non è impiegato per scioccare ma: “ho voluto che colpisse quando non te l’aspetti”, ha detto. In altre parole: non è lo spargimento di sangue che fa male, ma il fatto che arrivi nel momento in cui ti eri quasi affezionato. Che tu speravi che andasse diversamente. La morte nel Borderland non è spettacolo, è perdita.
Atto primo
Arisu è un ragazzo spento, disilluso, uno di quelli che sembrano galleggiare ai margini della vita. Vive di videogiochi, rifugiandosi in mondi alternativi più interessanti del reale. Un giorno, insieme a due amici, si ritrova catapultato in una Tokyo vuota, straniante, come sospesa nel tempo. Un non-luogo che si rivela presto spietato: il Borderland.
Qui sopravvivere non è questione di fortuna, ma di superare giochi mortali regolati da carte da gioco – e ogni seme rappresenta un tipo diverso di sfida: fisica, mentale, psicologica, sociale. Più alto è il numero, più disperata è la partita.
Durante questo percorso Arisu incontra Usagi, una ragazza solitaria, abituata alla fatica e alla verticalità delle montagne. Insieme cercano di capire non solo come restare vivi, ma soprattutto cosa sia davvero questo mondo – e chi tira le fila. Perché il Borderland non è solo un luogo: è un enigma esistenziale, un riflesso distorto delle crepe interiori di chi ci finisce dentro.
Atto secondo
Nella seconda stagione le regole cambiano: entrano in scena le carte figura (Jack, Queen, King) e i “boss” sono persone in carne e ossa, con storie, motivazioni, debolezze. Non ci sono più solo trappole mentali: i giochi diventano più crudeli, psicologici, perfino filosofici.
La serie qui si fa più corale: ogni personaggio ha il suo spazio, il suo arco narrativo. Si approfondiscono i passati, i traumi, i perché. Alcuni scelgono di arrendersi, altri scoprono parti di sé che non conoscevano. Questa stagione va molto più a fondo sul significato del Borderland, e porta i protagonisti a una rivelazione importante, che cambia completamente la lettura dell’intera storia.
Atto terzo
Il finale rimasto aperto trova il suo prosieguo. Nella terza stagione di Alice in Borderland, Arisu e Usagi, apparentemente tornati alla normalità, vengono risucchiati di nuovo nel Borderland. La carta del Joker, apparsa alla fine della stagione 2, diventa centrale e introduce nuove regole e sfide. Usagi scompare misteriosamente e Arisu dovrà affrontare un percorso più mentale e psicologico per ritrovarla. La distinzione tra realtà e illusione si farà sempre più sottile. Nuovi personaggi e giochi spingeranno i protagonisti oltre i loro limiti.
I personaggi
Arisu è il primo che incontriamo: un ragazzo spento, disilluso, che non ha mai davvero trovato il suo posto nel mondo. Paradossalmente, proprio nel Borderland comincia a vivere. È lucido, riflessivo, ma segnato dalla perdita e dalla colpa. Accanto a lui c’è Usagi, solitaria e silenziosa, una scalatrice che ha perso tutto ma che ha imparato a cavarsela da sola. Tra i due nasce qualcosa fatto di comprensione, resistenza, un legame fatto di fiducia in un mondo che ne ha poca.
Poi ci sono i volti che ruotano attorno a loro. Chishiya è il cervello freddo del gruppo, osserva tutto da lontano, tagliente e calcolatore, ma non privo di principi. Kuina, la sua alleata, è forza e fragilità mescolate: una combattente con un passato doloroso che ha imparato a non abbassare mai lo sguardo. Ann, l’ex poliziotta forense, è razionale e calma anche sotto pressione, un’anima fredda ma affidabile.
Alla spiaggia incontriamo Hatter, carismatico e idealista, uno che voleva creare ordine nel caos ma si è perso nei suoi stessi deliri di controllo. Aguni, il suo braccio destro, è il guerriero tormentato, quello che ha visto troppo per credere ancora in qualcosa. Niragi, invece, è il lato più oscuro: giovane, violento, distruttivo. Una mina vagante. E infine Mira, il volto gentile dell’orrore, l’enigma elegante che nasconde dietro al sorriso un’intelligenza tagliente e manipolatrice.
L’ambientazione
Un mondo, il Borderland, che non è stato costruito solo con gli effetti digitali. Sato ha raccontato che il celebre incrocio di Shibuya — che vediamo all’inizio della serie, completamente deserto — non è stato girato a Tokyo, ma ricostruito a oltre cento chilometri dalla città. Lui e il suo assistente ci sono andati con piccole videocamere per studiare ogni dettaglio, e poi hanno ricreato l’intera scena combinando set fisici e CGI con una precisione quasi ossessiva.
Anche le ambientazioni naturali sono frutto di uno studio meticoloso: la vegetazione che avanza, le città che marciscono, tutto è pensato per dare il senso del tempo che passa, del mondo che si consuma insieme ai suoi abitanti. Hanno persino creato cinque diversi livelli di “invasione vegetale” per rendere tutto più realistico. Per Sato, il paesaggio non è sfondo: è stato d’animo.