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‘Pretty Woman’: il racconto di una favola imperfetta
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3 mesi agoon
Pretty Woman, la commedia romantica che è entrata nell’immaginario collettivo come la favola moderna, doveva essere tutt’altro. La sceneggiatura originale era un dramma oscuro, ambientato a New York negli anni ’80, con una Vivian cocainomane che per una settimana doveva ripulirsi e un Edward che, alla fine, la abbandonava. Niente Cenerentola, niente lieto fine. Poi Garry Marshall trasformò quel canovaccio in una fiaba pop, ribaltando i toni e cambiando per sempre la storia del cinema romantico.
Qui si apre un primo tema. Non si tratta semplicemente di una favola, ma di un racconto che riflette sul prezzo dell’amore in una società che misura tutto in termini di denaro e status. Vivian non è una principessa: è una donna che sogna una vita diversa. Edward non è un principe: è un uomo intrappolato in una corazza di potere e solitudine. La famosa frase
“Voglio la favola.”
diventa paradossale: cosa vuol dire voler vivere in una favola in un mondo in cui non esiste? L’opera si rispecchia molto con il mito di Pigmalione, in particolare con l’omonima opera teatrale di George Bernard Shaw, che a sua volta ha dato vita all’iconico musical My Fair Lady, con la celebre Audrey Hepburn.
Vivian, femme fatale mancata o donna che vuole salvarsi?
Vivian (Julia Roberts) porta in sé i tratti dell’archetipo della femme fatale: seducente, autonoma, capace di muoversi tra desiderio e pericolo. Ma Pretty Woman la sovverte: non usa Edward per scalare, non manipola per potere. Quello che cerca è connessione e riscatto personale. Qui il film apre a una lettura femminista interessante: Vivian non è salvata da Edward, ma dall’opportunità di scegliere se stessa. Lo stesso Edward (Richard Gere) stando accanto a lei compie una crescita personale. Il salvarsi diviene dunque reciproco.
Mari Ruti, in Feminist Film Theory and Pretty Woman, lo sottolinea: il film si muove tra la seconda e terza ondata femminista, mostrando come la femminilità possa essere sia maschera che arma. Vivian non è solo oggetto del desiderio: è soggetto che rivendica valore economico e personale, anche dentro un contesto patriarcale. E qui sta la contraddizione che la rende interessante: è una storia apparentemente anti-femminista che apre invece spazi di emancipazione. Vivian arriva a un punto di crescita in cui non vuole più voltarsi indietro, che sia al fianco di Edward o no.
Questa tensione tra emancipazione e fiaba si riflette anche nella colonna sonora: brani come It Must Have Been Love dei Roxette o Oh, Pretty Woman di Roy Orbison non sono solo accompagnamento, ma diventano parte integrante della narrazione emotiva. Ogni volta che attacca quel riff di chitarra o quel ritornello malinconico, il film riesce a trasmettere le emozioni dei personaggi.
Pregiudizio e denaro: l’eleganza come barriera sociale
La prima volta che Julia Roberts entra in un negozio di Rodeo Drive viene accolta da sguardi taglienti e un “Evidentemente ha sbagliato atelier, la prego vada”.
Non servono insulti espliciti: basta un tono, basta un silenzio per creare distanza. È una scena diventata iconica perché tocca un nervo scoperto: il pregiudizio di classe passa dai tessuti che indossi, dal modo in cui parli, da come la società decide di leggerti. Edward stesso lo dice a un certo punto:
“Non sono mai gentili con la gente: sono gentili con le carte di credito.”
È vero, ma solo fino a un certo punto. Una cosa è la carta di credito in mano a un uomo in giacca su misura, un’altra è la stessa carta stretta da una donna in un vestito che la società non considera elegante. Quando Edward la accompagna di nuovo nello stesso negozio, la trasformazione del trattamento è immediata.
Illusione e disillusione: quando la favola si incrina
Per gran parte del film, Vivian vive sospesa tra realtà e sogno. È la storia di una donna che cerca un’occasione per rialzarsi, che sogna una vita diversa già prima di incontrare Edward. Ma la favola che sembra costruire crolla per un attimo quando l’avvocato di Edward (Jason Alexander) la tratta come un oggetto acquistabile. La scena dell’oggettificazione è brutale proprio perché taglia la patina romantica e ricorda cosa significa davvero vivere sotto stereotipi radicati. In un mondo dove non c’è spazio per il rispetto. Una problematica con cui le sexworkers sono costrette ancora a confrontarsi.
Vivian non è ingenua. Sa da dove viene, sa cosa la gente pensa di lei. Ma il film le concede la possibilità di sognare. E proprio lì, nel momento in cui la realtà irrompe e ferisce che si vede la differenza: la favola non è mai stata Edward, è sempre stata lei che si permette di desiderare di più.
Vivian e Kit: due sopravvivenze, due mondi
Vivian Ward porta addosso la strada, ma non si lascia definire unicamente da essa. È l’archetipo moderno di Cenerentola, non per il principe ma per l’arco di trasformazione: una donna che attraversa un confine e scopre di poter riscrivere la propria identità. La sua regola più grande? Non baciare in bocca. Non è romanticismo, ma sopravvivenza, nonché lavoro. È la barriera che le ricorda che ciò che vende non è sé stessa.
“Io non sono roba tua ok? Dico io chi, quando…”
Un manifesto di controllo in un mondo che vuole comprarla.
Kit De Luca (Laura San Giacomo) è l’opposto: la mentore di strada di Vivian, quella che l’ha introdotta al mestiere, ma anche la burlona, la voce sarcastica e disincantata che mette tutto a nudo. Kit non cerca trasformazioni: la strada per lei non è una fase ma una realtà che accetta, persino quando Vivian tenta di portarla via. Dove Vivian costruisce distanza, Kit la abbatte con l’ironia e con un cinismo che sa di ferita. La loro convivenza nello stesso appartamento è un microcosmo di due scelte possibili: resistere per sopravvivere o credere in una via d’uscita.
La scena in cui Kit si arrende al suo destino è centrale. È lì che capiamo che non esiste un solo arco di redenzione, che non tutte le donne devono per forza volere la fuga per essere forti. Kit resta dove Vivian se ne va, e questo non la rende meno resiliente. Una resilienza diversa: quella di chi, invece di cambiare la propria vita, vuole restare in piedi dentro la stessa vita ogni giorno.
Pretty Woman 2 tra sogno e nostalgia
Ogni volta che si parla di un sequel per il cult anni 90′ Pretty Woman, si tocca un nervo fragile: si può davvero replicare una favola che ha segnato un’epoca? Richard Gere non chiude del tutto la porta, ma mette un paletto netto:
“Solo se la sceneggiatura sarà all’altezza.”
Un modo elegante per dire che la magia non si può improvvisare. Julia Roberts, dal canto suo, ha sempre guardato l’ipotesi con un misto di affetto e distanza.
“Ogni volta che si cerca di riportare qualcosa nel presente, si rischia di rovinare ciò che era speciale all’epoca”
Nelle sue parole c’è la consapevolezza che Pretty Woman non era solo una storia d’amore, ma un frammento preciso di tempo e cultura. Forse è per questo che, scherzando, immagina oggi Edward “morto serenamente nel sonno, sorridendo” e Vivian a gestire la sua azienda.
Forse il vero sequel non sarà mai sugli schermi, ma in ciò che questo film continua a farci desiderare: la possibilità di cambiare vita, di essere visti oltre i pregiudizi. Un sogno che, trentacinque anni dopo, vale ancora la pena di proteggere.
Il film è presente su Disney+.