Il cortometraggio BAQAYA, già nel suo titolo, svela al pubblico il tema centrale del film, caratterizzato da una matrice fortemente esistenzialista. Il termine Baqaya indica, nella lingua araba, un residuo, qualcosa che resta laddove c’è stata una distruzione. Non è un caso che il titolo del film venga affiancato alla sua traduzione in lingua inglese Remains, che può significare rovine, oppure resti. In circa quindici minuti Christine Abou Zein porta in scena un dramma sulla lotta di chi resta, in solitudine, laddove tutto è stato distrutto.
La trama e lo stile di BAQAYA:

La vicenda ruota attorno ad un uomo anziano e solo, che vive in una landa desolata insieme al suo cane.
Il personaggio principale a cui non viene attributo un nome, interpretato da Hassan Farhat, è costretto a una vita da eremita.
Egli passa la sua quotidianità contemplando i resti che lo circondano. Un mondo passato e lontano che non è dato conoscere, ma che si percepisce negli sguardi cupi del protagonista.
Il feretro di un defunto viene portato verso la sepoltura. Le notti del protagonista sono scandite dalla scrittura dei suoi pensieri su fogli sparsi e l’unico conforto arriva dal suo cane e da un uomo più giovane, interpretato da Mahmoud Majed, il quale visita il vecchio pastore portandogli dei viveri.
Il cortometraggio si concentra sul voler trasmettere, attraverso la fatica e il dolore, il significato che si cela dietro un’esistenza lontano dagli altri.
Baqaya esplora la natura umana in connubio all’atmosfera che vive quotidianamente il protagonista, con un profondo sguardo non solo alla realtà che ci circonda, ma anche su quella che abita la nostra anima.
Christine Abou Zein realizza un cortometraggio dal forte valore introspettivo, focalizzandosi sulla lotta interiore di chi vive solo di ricordi. La memoria è l’unico strumento per sopravvivere all’oblio della solitudine.
Un film esistenzialista dai toni cupi

La fotografia di Alex Meouchy, caratterizzata da un bianco e nero dove l’ombra primeggia sulla luce, rende ancora più forte, da un punto di vista visivo, il messaggio narrativo del film.
La quotidianità del protagonista è caratterizzata da un forte pathos emotivo, anche nei piccoli gesti: ogni immagine riporta un senso di sofferenza e malinconia. Seduto al tavolo della sua casa ormai ridotta a un rudere, la notte passa molto lentamente, attraverso la scrittura di memorie, che poi vengono ripetutamente distrutte in un falò, o da camminate al chiaro di luna.
Il film rappresenta il dolore della solitudine attraverso la lentezza e l’incapacità di agire dinanzi alle intemperie del mondo. Anche la decisione più sofferta, viene messa in atto dal protagonista non solo attraverso un dolore emotivo, ma si mostra anche attraverso un dolore fisico: il respiro affannoso rappresenta tutta la difficoltà di prendere una scelta, di continuare a lottare laddove non si hanno più le forze di farlo. Lo scrittore Franz Kafka scrisse, nelle sue Meditazioni sul peccato, la sofferenza la speranza e la vera via:
Non c’è bisogno che tu esca di casa. Resta al tuo tavolo e ascolta. Non ascoltare nemmeno, aspetta soltanto. Non aspettar neppure, resta lì tutto solo e in assoluto silenzio. Il mondo verrà ad offrirsi a te perché lo smascheri, non può fare altrimenti, si volterà estasiato ai tuoi piedi
Il film di Christine Abou Zein è un un’opera che indaga la difficoltà di agire, il dolore provocato dalla scelta, la condanna perpetua di un’esistenza in un limbo tra passato e presente. Nel tentativo di sopravvivere, attraverso la memoria, al dolore più recondito. Più i ruderi aumentano, più persone e animali svaniscono: l’unica gioia risiede nel dare completamente le spalle al mondo, rifugiandosi nei ricordi, l’unica attitudine in grado di permettere di sopravvivere ad una vita condannata alla solitudine.