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Quando a Torino si “tagliava” la scuola

Le mattinate al cinema di un giovane appassionato di settima arte. Un racconto in occasione dei 19 anni di Taxi drivers

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Quello che in un italiano gergale si dice “marinare la scuola”, a seconda della città in cui si vive si traduce con termini fra i più fantasiosi possibili. Ad esempio “bigiare” a Milano, “fare forca” se si sta a Firenze o “bucare” se all’ombra della torre pendente, “fare sega” o “fare filone” a seconda che ci si trovi a Roma o a Napoli, “salare” se chi non si presenta a scuola all’insaputa dei genitori guarda lo Stretto dalla sponda reggina. A Torino, luogo dove sono nato ormai ben più di mezzo secolo fa e nel quale ho vissuto per oltre trent’anni, si traduce con “tagliare” e io, dell’arte del “tagliare”, ero campione, con tanto di firma di mamma contraffatta a regola d’arte il giorno dopo, per giustificare l’assenza.

C’erano, infatti, alcune mattine in cui ci si trovava di fronte alla scuola e si decideva di fare dietro front senza entrarvi, rendendo così la giornata piena di aspettative che, spesso, naufragavano miseramente nella noia letale del bighellonare senza meta per il centro cittadino. Spesso, ma non sempre. Non quando, soprattutto se da solo, decidevo di infilarmi in un cinema per dedicarmi a quella passione che, sin da piccolo, ho coltivato grazie alla perseveranza con la quale i miei genitori mi portavano a vedere i film nelle varie sale che affollavano il nostro quartiere, sia che fossero cinema “seri”, sia che si trattasse di modeste sale parrocchiali.

In particolare negli anni Settanta a Torino c’era un cinema che, a quel tempo cosa più unica che rara, proponeva proiezioni anche la mattina. Quella sala esiste ancora e si chiama Centrale, un cinema d’essai posto nella centralissima via Carlo Alberto. Non sono sicuro, però, che oggi continui a proporre quelle bellissime matinée alle quali ero particolarmente affezionato.

In ogni caso, “tagliata” la scuola, se da solo e quindi non obbligato dai compagni a vagabondare per la città, mi recavo al Centrale con uno stato d’animo che sfiorava l’eccitazione, pienamente consapevole del mio essere clandestino ma poco importava. Qualche titolo visto lì, immerso nel buio di quella sala lunga e stretta, lo ricordo ancora, come se fosse incastonato nella mia mente non tanto per l’indubbio valore artistico, che a quel tempo, da giovane appassionato ma ancora con poca coscienza critica quale ero, probabilmente nemmeno percepivo appieno. Piuttosto per la magia di quei momenti che derivava dal fatto che l’essere lì, in quel luogo, faceva parte di un qualcosa che era solo ed esclusivamente mio, un piacere che nessuno avrebbe potuto sottrarmi. E al diavolo se mi perdevo una lezione di matematica o di italiano, che in ogni caso avrei recuperato grazie alla benevolenza di qualche compagno disposto a passarmi gli appunti.

In particolare, il Centrale era un vecchio cinema nato nel 1939 con il nome di Carlalberto (poi Carlo Alberto), divenuto negli anni prima Cinema Asti e poi, appunto, Centrale d’essai quando nel 1968 fu testimone della nascita dell’AIACE, l’Associazione Italiana Amici del Cinema d’Essai, benemerita associazione cittadina che tanto ha fatto per tutti gli amanti del cinema d’autore.

In quegli anni così complessi, in cui alla drammaticità degli eventi legati al terrorismo e alle stragi di stato faceva da contraltare una dirompente energia giovanile che si traduceva con spinte innovative sia dal punto di vista sociale sia culturale, io mi aprivo al mondo affamato di conoscenza. Una necessità che appagavo con le letture più disparate, oppure seduto sulle sedie del Centrale, senza interferenze esterne, a guardare film che, ormai, mi è impossibile ricordare tutti. Uno fra i tanti, però, è rimasto impresso nella memoria in maniera indelebile. Era Ecce bombo, grazie al quale, per la prima volta, ho fatto conoscenza con il genio di Nanni Moretti, regista al quale sono stato e sono tutt’ora affezionato e che ho sempre considerato come una sorta di fratello maggiore, in grado di mettere in scena i tic, le ingenuità, la voglia di vivere ma anche la disillusione di una generazione poco più vecchia della mia e nella quale, comunque, era normale rispecchiarsi.  Tuttavia, il ricordo così attuale di Ecce bombo visto in quella sala semideserta non è legato solo al film in sé che, senza dubbio, mi aveva decisamente appassionato. No, la memoria in me è ancora così viva in quanto rappresentò anche la mia prima “scornata” amorosa, poiché la ragazza che avevo invitato e a cui facevo il filo si presentò con un’amica. La medesima fanciulla che ahimé, poco dopo, si mise con quello che, al tempo, era uno dei miei migliori amici, ma questa è un’altra storia.

Il Centrale non l’ho mai abbandonato anche se, con gli anni, la mia sala di riferimento era diventata lo Studio Ritz, altro cinema d’essai posto sulle prime pendici della collina alle spalle della chiesa della Gran Madre (e anche questa, però, è un’altra storia perché, nel frattempo, la mia vita era cambiata). Un po’ di tempo fa ci sono passato davanti: quello che un tempo era stato un cinema molto interessante per la sua programmazione oggi è un luogo lasciato a se stesso, senza più vita; rampicanti ne invadono la facciata e, sulle porte sbarrate, si sono sbizzarriti i graffitari. La bassa costruzione è ormai un posto triste in cui rimangono solo i ricordi di chi, come me, fra quei muri, in quella sala che immagino ormai rifugio per topi e scarafaggi, ha potuto sognare e appassionarsi alle storie che scorrevano sullo schermo, lasciando sparsi, qua e là, brandelli di giovinezza mischiati alla polvere e ai detriti di un vecchio cinema ormai abbandonato.

Ecce bombo