La nuova miniserie di Netflix, Sirens, si presenta nel panorama dei drammi di prestigio con l’alta moda del mistero, della manipolazione e delle interpretazioni magnetiche. Ma proprio come la sua enigmatica antieroina, Michaela Kell, interpretata con gelida compostezza da Julianne Moore, è bella da guardare (ma lento il nostro affidarci) e ci lascia incerti sull’essere stati sedotti o semplicemente abbandonati.
Ambientata nel corso di un weekend sempre più teso in una sontuosa tenuta sulla spiaggia, Sirens si srotola come una fiaba contorta di sorellanza, sospetto e parassiti spirituali. È un thriller psicologico avvolto nel velluto, immerso nell’acqua salata e a un passo dalla grandezza.
Le sorelle, la sirena e il culto di Michaela
Al centro della storia c’è Devon Kenn (Meghann Fahy), una donna acuta e scettica che sospetta che la sorella minore Simone Dewitt (Milly Alcock) sia caduta sotto l’incantesimo della sua affascinante capa, Michaela Kell. Con Simone che scompare nel mondo lussuoso e forse settario di Michaela, Devon decide di intervenire in modo antiquato.
Ma affrontare Michaela nella sua tenuta sull’oceano si trasforma in qualcosa di molto più insidioso: un gioco mentale del gatto e del topo in cui nessuno è chi sembra e le trappole sono psichiche, non fisiche.
Moore dà il meglio di sé quando non si sforza. Nei panni di Michaela, interpreta il confine tra leader di una setta, guru del benessere e life coach malvagia con una facilità inquietante. Sussurra quando gli altri urlano. Il suo controllo è terrificante, non solo per quello che dice, ma per quanto non dice. Alcock conferisce a Simone una vulnerabilità convincente e fragile, mentre Fahy eccelle nel dare a Devon grinta e cuore senza scadere nel cliché.

Meghann Fahy e Milly Alcock
Splendido, ma senza vita: la maledizione della TV desaturata
Sirens avrebbe potuto essere abbagliante. Invece, è pastello. La fotografia è tecnicamente impeccabile – composta, pulita e opportunamente costosa – ma la palette di colori è priva di vita. Ogni inquadratura è immersa in quel tipo di pastelli malinconici che gridano “prestigio”, ma sussurrano “noia”. La luce del sole è diffusa, le ombre cadono come tende firmate. Acqua, cielo, pelle: tutto è immerso in toni tenui. È parte di un problema più ampio che affligge il cinema e la TV moderni: il presupposto che “serio” equivalga a incolore.
Da qualche parte tra The Crown e Ozark, abbiamo perso il coraggio di rendere storie emotivamente vibranti anche visivamente vibranti. Sirens ha il potenziale per inebriare gli occhi – dopotutto è ambientato su una bellissima spiaggia – ma riduce tutto a un sussurro basso e di buon gusto. Il risultato? Una serie che sembra una pubblicità di lusso ma che raramente emerge dallo schermo.
Echi di Highsmith, Du Maurier e horror di culto
Sotto il suo lusso e il suo languore, Sirens ha forti radici letterarie e cinematografiche. La dinamica Michaela-Simone evoca atmosfere alla Rebecca, con la Michaela di Moore che è un ibrido tra la sinistra Mrs. Danvers e una Lady Macbeth dell’era Goop. Si percepisce anche un accenno ai personaggi moralmente sfuggenti di Patricia Highsmith, con identità confuse e motivazioni distorte.
Ma Sirens attinge anche all’horror di culto contemporaneo – da Midsommar (Ari Aster, 2019) a The Invitation (Karyn Kusama, 2015) – collocando i suoi brividi psicologici nella gabbia dorata della moderna cultura del benessere. Michaela non brandisce un coltello; offre un cristallo e un frullato detox, e in qualche modo questo è ancora più terrificante.
La sceneggiatura evita intelligentemente le lunghe distrazioni, lasciando che lo spettatore sveli gli strati dell’influenza di Michaela. Ma mentre la tensione cresce in modo ammirevole nella prima metà, la conclusione non esplode del tutto.
Incantevole, ma ovattato
Ciò che Sirens sa scegliere bene il tono giusto. Sa come creare un’atmosfera di terrore mascherata da lusso. È un weekend infernale in un centro benessere, e la serie comprende l’orrore del controllo mascherato da cura. Moore è il fulcro della storia, e la sua interpretazione da sola vale la maratona. Ma la serie gioca troppo sul sicuro, troppo chic, per sembrare davvero pericolosa.
La relazione tra Devon e Simone offre spunti emotivi, e Fahy e Alcock sfruttano al meglio il loro tempo condiviso sullo schermo. Eppure, si ha la sensazione che la serie si stia trattenendo, temendo di diventare completamente folle, piena di colori, completamente cult. Invece, scivola come un cigno su un lago immobile, bellissima, ma agita appena l’acqua sottostante.

Prestigio pulsante, ma senza tocco personale
Sirens è una miniserie d’atmosfera con interpretazioni brillanti e una sceneggiatura discretamente avvincente. È un racconto ammonitore sull’influenza, la femminilità e le maschere che le persone indossano per sopravvivere. Eppure, nonostante tutta la sua eleganza e le sue promesse, non si libera mai del tutto dai suoi stessi limiti.
Guardatelo per l’interpretazione ipnotica di Julianne Moore. Guardatelo per il disagio, la tensione che si accende lentamente, gli accenni di qualcosa di sinistro sotto la superficie. Non aspettatevi però fuochi d’artificio, né tanto colore.
Come il mito del titolo, Sirens vi cattura con la sua bellezza e il suo mistero. Ma avvicinandovi, scoprirete qualcosa di affascinante e, stranamente, vuoto.