Un racconto inedito di un Artista è quello ripreso, montato e mostrato da Niccolò Maria Pagani con il suo Mauro Corona – La mia vita finché capita.
Mauro Corona – La mia vita finché capita è una produzione Ushuaia Film e Wanted Cinema, prodotto da Niccolò Maria Pagani, Anastasia Plazzotta, Luca Da Dalt con il contributo di FVG Film Commission – PromoTurismoFVG e sarà nelle italiane dal 5 maggio con Wanted, dopo esser stato in anteprima mondiale al Trento Film Fest nella sezione Fuori Concorso/Anteprime.
Del documentario, in occasione dell’uscita nelle sale, abbiamo parlato proprio con il regista Niccolò Maria Pagani.
Niccolò Maria Pagani e il legame con Mauro Corona
Scegliere un personaggio controverso come Mauro Corona come protagonista del tuo documentario è una scelta coraggiosa. Oltre a chiederti il perché di questa scelta, ti chiedo com’è stato seguirlo in tutto il percorso sia fisico che riflessivo del film?
In realtà conoscevo Mauro Corona come lo conoscevano tutti, cioè dal personaggio di Cartabianca, e dall’idea che mi ero fatto diciamo che non pensavo fosse un personaggio con del materiale per poi farci un film. Poi mi è capitato di andare a sentirlo parlare durante una presentazione di un suo libro a Milano, a seguito della quale il suo agente mi ha invitato a cena, e lì ho avuto modo di parlarci per dieci minuti e mi sono accorto che c’era un vero e proprio universo dietro quella persona una volta tolta la maschera del personaggio di Cartabianca. In dieci minuti mi ha parlato di vita, di morte, di amore, di tutto, e ho pensato subito che fosse la scaletta del film.
Prima di addentrarmi nel dettaglio, vorrei fare una riflessione. Perché oltre a Mauro Corona ritengo ci sia un altro importante protagonista: il paesaggio e più in particolare la montagna. Attraverso di lei vediamo il mondo e capiamo anche le parole e le scelte di Mauro Corona (più volte ripete il suo legame con il paesaggio e per esempio il fatto che si senta libero e realmente se stesso solo quando è in montagna).
Sono d’accordo e ti direi che questo non è un film su Mauro Corona e non è nemmeno un film sulla montagna, ma è un film che parla di fantasmi, che ognuno di noi ha da qualche parte, ed è un film che parla di una certa fase dell’età, la vecchiaia, ma anche di morte. Attraverso i pensieri di Mauro Corona c’è la possibilità, poi, di dare un senso a tutti questi argomenti, e la montagna diventa la coprotagonista, nel senso che poi tutti quei pensieri vengono amplificati dalle montagne circostanti e dal fatto che Mauro sia un uomo di montagna. In più, la montagna di Erto è ancora più particolare perché tutt’oggi mostra quell’enorme ferita che è stato il disastro del Vajont. Io, che per girare il film, sono andato a vivere a Erto per sette mesi, tutte le mattine, quando mi svegliavo, vedevo le montagne, ma vedevo anche la ferita, che è tutt’ora presente anche in tutte le persone che in questi posti ci vivono. Quindi, diciamo che è un film sulla vita (nel titolo c’è anche la parola vita, la vita finché capita).
Malinconia e fantasmi
Sicuramente è un insieme di tutto quello che dici, anche perché la sensazione che si ha una volta terminato il documentario è quella di angoscia. Un po’ per come vive la sua vita e un po’ per come la mostra e la descrive. Allo stesso tempo, però, lui è un personaggio fuori le righe che usa questo suo modo di essere per esorcizzare tutti i pensieri più negativi.
Sì, per obnubilarli, come lui dice nel film. Possiamo dire che grazie al fatto che sono raccontati da lui (una persona con una fortissima vena ironica), tende a sdrammatizzare e, in qualche modo, alleggerire il tutto, lasciando comunque determinati pensieri. Credo che qualche riflessione la lasci, soprattutto in certi momenti e questo grazie sicuramente anche al modo che ha Mauro di raccontare le cose.

A tal proposito un aspetto che mi ha colpito è che il film inizia come se lui fosse morto, con la voce fuori campo e poi la frase che viene subito contrapposta alle parole dello stesso Corona che tranquillizza il pubblico dicendo che lui non è morto, non si è suicidato. Questo per inquadrare subito il personaggio e il suo essere anche provocatorio. E mi sembra possa essere anche una chiave di lettura del documentario stesso.
Sì, ho aperto proprio con il suo epitaffio, o meglio quello che lui vorrebbe che fosse il suo epitaffio. Questo perché porta subito in un mondo di morti. Poi, in realtà, ci sono momenti in cui se ne esce, cioè momenti anche di positività, soprattutto con Erri De Luca che, pur essendo un suo coetaneo, porta avanti gli stessi argomenti, ma con un punto di vista completamente diverso. Mi piaceva che ci fosse qualcuno che potesse dare un po’ di leggerezza, in qualche modo.
Niccolò Maria Pagani e gli ospiti di Corona
Visto che l’hai citato ti chiedo degli ospiti. Sembra che ognuno di loro abbia in qualche modo apportato una sua peculiarità al racconto e lo abbia quasi diviso in capitoli/parentesi. Oltre agli argomenti che riecheggiano nella vita di Corona, ognuno è anche raccontato in modo diverso con stile e caratteristiche diverse (Piero Pelù per esempio è in bianco e nero). Come mai?
In quel caso abbiamo scelto il bianco e nero perché quello è l’unico momento in cui Mauro non è in scena, c’è qualcun altro da solo senza che sia Mauro. E quindi, come hai detto, era un po’ come se ci fosse stata una parentesi. E abbiamo scelto di inserirlo abbastanza all’inizio del film proprio perché secondo me in quei due minuti di voice over di Pelù c’è un bel ritratto di Mauro che viene fatto da un’altra persona. E questa persona, in quanto artista, sa cosa vuol dire convivere con certi fantasmi, convivere con la luce e l’ombra. Che poi è quello che dà e toglie la montagna perché la montagna dà la luce ma dà anche l’ombra. Così come Mauro stesso che ha tante luci, ma anche tantissime ombre.

Proprio per questo anche il suo modo di raccontarsi e il tuo modo di mostrarlo non lo fa essere un documentario troppo classico.
Esatto. La mia intenzione era quella di distaccarmi tantissimo dal documentario classico con immagini di archivio di Mauro bambino, interviste posate perché non volevo che ci fosse nessun sentore di finzione. Mi piaceva lasciare completamente spazio sia a Mauro sia agli ospiti.
E infatti anche la scelta di questi ospiti che danno il loro punto di vista è come se tre persone che guardano il film entrassero in contatto diretto con lui.
Sì, ed è stato anche abbastanza naturale sceglierli perché quando all’inizio, parlando con Mauro, era emersa la possibilità di un eventuale coinvolgimento di qualcuno mi ricordo di aver visto una foto e di avergli chiesto Ma cosa ci faceva qui Piero Pelù?. E la sua risposta è stata: Ah, è venuto a farsi una serata e ci siamo divertiti come dei pazzi.
Ecco che ho proposto di rinvitare Piero. E mi piaceva l’idea che, a parte Erri De Luca, i due ospiti fossero mostrati con un set un po’ più pensato come se fossero due vecchi amici che si rivedono dopo un po’ di tempo, si mettono davanti a due bicchieri di vino al falò e parlano della vita. Mi piaceva sottolineare quella spontaneità di cui poi parla anche lo stesso Piero Pelù in riferimento a Mauro come una caratteristica molto forte di questo film dove non c’è niente di costruito.
Un artista fuori dagli schemi
Il documentario sembra diverso da racconti più classici, come lo stesso Corona è diverso da altri. Lo si evince sia dal modo in cui viene raccontata la storia sia da quello che fa e dice lo stesso protagonista. In particolare con la frase La vita ha imposto dei canoni, ma io non li seguo.
È il successo che ha rappresentato, in qualche modo, proprio questo: il potersi permettere di vivere senza seguire i canoni che la vita ha imposto, che la televisione ha imposto. E l’ho visto e lo vedo anche per come si poneva lui quando c’era la telecamera davanti. A lui che ci fosse o meno non interessava e risultava sempre a suo agio non perché fosse abituato a stare davanti alla telecamera, ma proprio perché non era interessato e questo ha fatto sì che in qualche modo lui potesse essere più libero. Parliamo del film, ma parliamo anche della sua vita. E oltre alla frase che hai citato ce n’è un’altra che, secondo me, è molto importante e quasi una chiave del film, dalle parole di Mario Rigoni Stern, in cui lui dice Tutto è niente. Ed è una frase forte se analizzata bene.

Un altro aspetto interessante che caratterizza il documentario è la voce narrante, quella di un incredibile Giancarlo Giannini, che legge parole dello stesso Corona, tratte dai suoi libri.
Tutti i testi sono tratti da Le altalene che, all’epoca delle riprese del film, era l’ultimo libro (adesso ce n’è un altro). Sicuramente si tratta di un libro abbastanza autobiografico nel senso che c’è questo dialogo tra un vecchio e il protagonista. Quei brani presi da Le altalene credo che abbiano dato una grande forma e una grande forza al film.
Prima parlavi dell’assenza di materiale d’archivio in questo documentario. Si potrebbe quasi dire che questa lettura si sostituisce ai video e rende il tutto più poetico.
Sì, in qualche modo è stato il fil rouge che poi ci ha permesso di creare la struttura di tutto il film. Tutti quei brani rappresentavano la struttura portante e poi la cosa bella di quel libro è che ogni argomento che volevo toccare c’era anche nel libro (morte, vecchiaia, montagna, Erto…). E chi meglio di Mauro Corona per descrivere un paese così particolare come Erto, uno come lui che lì ci è nato, ci è sempre vissuto ed è molto legato sin dall’infanzia.
Il rapporto con la montagna e con Erto
L’ho trovata interessante anche perché sembra andare di pari passo non soltanto con il paesaggio naturale, ma anche con l’evolversi dello stesso e con il passare delle stagioni. Così come Mauro Corona cresce raccontando la sua vita dall’infanzia al presente, allo stesso tempo il paesaggio muta con lui.
Sì, esatto. Come dici tu si parte dall’infanzia e si arriva alla morte, quindi si segue il percorso classico della vita di tutti da un lato, ma dall’altro c’è il passare delle stagioni che ci piaceva molto poter inserire. Abbiamo iniziato a girare le prime cose in autunno e le ultime all’inizio della primavera e volevo che ci fosse questo passaggio delle stagioni, senza andare però a metterci dentro l’estate, quindi la fine dell’autunno, il pieno inverno e l’inizio della primavera, quindi dall’addormentamento al risveglio, tenendo, però, quei colori un po’ malinconici che sono quelli autunnali e invernali. Quest’ultimo soprattutto ha un ruolo più importante secondo me perché questo è un film anche sull’inverno delle stagioni e sull’inverno della vita.

Infatti ho trovato molto significativa anche la fine perché, dopo aver percorso tutta la vita, lui ritorna al punto di partenza in quella scena molto bella al cimitero ed è come se ci fosse il discorso dei fantasmi, della morte al quale facevi riferimento all’inizio. Anche la vita è ciclica.
Sì, diciamo che si apre con un epitaffio e si chiude su una tomba. In qualche modo si ritorna un po’ all’inizio, se vogliamo. Quella frase iniziale, paradossalmente, avrei potuto metterla anche alla fine come le stagioni che ciclicamente tornano. Poi credo anche che un grande aiuto lo abbia dato Omar Pedrini con quel brano che abbiamo inserito. Quando uscì, intorno alla fine degli anni ’90, ricordo che fu un brano che sentivo sempre molto e credo sia uno dei brani rock più belli della musica leggera italiana degli ultimi anni. Il fatto che Omar mi abbia permesso di fare una versione particolare con una voce femminile credo sia stato un bel regalo da parte sua. Soprattutto perché nel film non ci sono donne: nel mondo di Mauro non ci sono donne, anche se ce ne sono tantissime che vengono costantemente evocate durante il film, come la mamma, la nonna, la zia. Il finale sulla tomba della madre, che è la presenza femminile più forte di tutto il film, e, quindi, avere una voce femminile, mi ha permesso, in qualche modo, di dar voce a tutti questi personaggi femminili che avevamo sentito, ma che non avevamo visto.
Le figure femminili nel doc di Niccolò Maria Pagani
E, in effetti, questo suo evocare continuamente cambia nel momento in cui entra in contatto più direttamente (attraverso la tomba) con la figura della madre e questo rapporto si traduce in un atteggiamento diverso: per la prima volta lo vediamo fragile come non lo abbiamo mai visto.
In quel momento forse lo conosciamo veramente. Lì lui si commuove e c’è una stessa potenza anche all’inizio, nella casa dei genitori, quando lui dice quella frase molto vera, semplice e forte: a un bambino manca la mamma. Per questo ho scelto una versione particolare della canzone, magari anche con delle imperfezioni, ma senza mistificare qualcosa di autentico in un film in cui tutto era sincero, tutto vero. Ci piaceva che anche quella voce finale fosse vera, pur con tutte le imperfezioni al pari di quella che è la vita di Mauro, vera con tutte le sue imperfezioni.

Per questo ci tengo tantissimo a ringraziare Omar perché aver messo a disposizione un suo brano così importante e così famoso è una cosa per cui gli sarò sempre grato. E poi è un brano che parla di un carcerato, quindi di una persona che vede la vita fuori dal carcere ed è quello che dice Mauro quando è nella casa dei genitori. Lui parla di sindrome di Stoccolma a proposito del non riuscire a tornare via da un posto che vorrebbe lasciare.
È come se fosse anche lui, da un certo punto di vista, in gabbia, ma si sente libero solo in alcuni momenti e solo in alcuni luoghi.
Sì, esatto. È come se fosse in gabbia ed è una delle cose che ha detto anche Mauro spesso in occasione delle anteprime di presentazione. Anche per la televisione si è dovuto mettere addosso una maschera che poi l’ha ingabbiato. Questo film, secondo me, gli ha dato la possibilità di toglierla quella maschera, almeno per un’ora e mezza, e far vedere chi c’era sotto. Lui dice sempre che ho accettato di fare questa cosa perché non volevo morire frainteso.
La sensazione che aleggia in tutto il documentario è quella di malinconia. Dal problema con gli spazi vuoti nelle pagine che scrive a mano per i suoi libri, all’infanzia difficile e a tutto quello che ne è derivato fino ad arrivare a una conclusione che non è altro che un ritorno all’infanzia con la scena al cimitero. Alla fine questo film è sicuramente servito a conoscere una persona diversa da quella che appare. E mi verrebbe quasi da dire che ciò che emerge è la figura di un artista dannato.
Esatto. Come viene detto anche nel voice over lui è una rock star delle Dolomiti, con tutti i pro e contro di essere una rock star. Secondo me quella definizione è particolarmente azzeccata.
La fotografia di Luca Da Dalt
Una menzione speciale va, come detto, al paesaggio e alle montagne, coprotagonisti a tutti gli effetti. Sicuramente anche la scelta di mostrarli e raccontarli in un certo modo rende il documentario ancora più autentico e naturale.
Sono d’accordo e a tal proposito ci tengo a fare un ringraziamento particolare, quello al mio direttore della fotografia, Luca Da Dalt. Quando abbiamo iniziato a parlare di questo film Luca aveva 24 anni e anche adesso, anche se sono passati due anni, è ancora molto giovane. Il fatto di avere un direttore della fotografia così giovane a me era servito per dare uno sguardo un po’ meno malinconico e meno greve anche delle montagne, di Erto, e credo che Luca sia riuscito a fare un lavoro davvero eccellente. Con la sua fotografia è riuscito a rendere bene l’idea di quelle montagne che viaggiano in parallelo con il film.

Hai ragione. Non ha e non dovrebbe avere un’etichetta di età un lavoro come quello della fotografia, però, in effetti, se non me l’avessi detto, dalle immagini del film avrei pensato a un direttore con più anni. Non che risultino vecchie o acerbe, ma sembrano realizzate da qualcuno con un’esperienza alle spalle superiore.
Esattamente. È riuscito a fare una cosa che non avrei immaginato. Poi anche lui è venuto spesso a Erto. Io, come ti dicevo, mi ci sono trasferito sette mesi perché il film, oltre a girarlo, me lo sono anche montato e ogni due settimane Luca veniva a darmi una mano. Penso che il fatto di essere andato a vivere lì ed essere stato presente in maniera così immersiva nel mondo di Mauro abbia fatto tanto anche per il film che se l’avessi montato nel mio studio di Milano non credo sarebbe venuto fuori allo stesso modo. Poi devo dire che quella piccola famiglia che ho trovato a Erto mi ha dato una gran mano anche a staccare dalla mentalità e dalla testa cittadina. Inizialmente avevo paura della solitudine perché Erto vecchia ha 40 abitanti, ma in realtà non è stato così tanto difficile, anzi è stato molto naturale e credo che al film abbia fatto tanto.
Niccolò Maria Pagani e Mauro Corona nelle sale
Adesso è il momento dell’uscita nelle sale e, quindi, il momento di accompagnare il film nei cinema. Questa è anche un’occasione per Mauro Corona di raccontarsi nuovamente e ulteriormente portando in giro il documentario.
Assolutamente sì, nel senso che adesso, oltre alla prima ufficiale il 2 maggio al festival del cinema di Trento, il film arriverà in sala dal 5 maggio per i classici tre giorni del documentario, sperando che possa ovviamente rimanerci un po’ di più. E questo è sicuramente un modo per Mauro per tornare un po’ a raccontarsi.
Sono Veronica e qui puoi trovare altri miei articoli