Presentato in anteprima al Trento Film Festival, durante la sua 73esima edizione, Svalbard: Silent Games racconta di un luogo agli estremi della terra, un territorio di nessuno schiacciato, nel corso della storia, dalle legislazioni e dalle burocrazie mondiali. Francesco Biscaglia ci introduce le isole Svalbard: un posto sospeso in cui pur pullula vita, in cui niente sembra attraversarlo eppur vive nelle sue insidie e nella sua ostica e affascinante natura.
Le isole Svalbard sono state, nel corso di un secolo, punto d’interesse molto importante per l’economia europea; prima per la caccia alle balene e, successivamente, per l’estrazione del carbone e altre risorse minerarie. Per questa ragione si sviluppano due insediamenti: uno norvegese (Longyearbyen) e uno prima olandese, poi sovietico e, infine, russo (Barentsburg).
I protagonisti che disegnano questa storia raccontano come l’insediamento russo, fin dal 1930, fosse popolato in gran parte da lavoratori ucraini. Capire gli schieramenti e i personaggi diventa un punto chiave per comprendere il film e le sue intenzioni; perché nella grande mappatura del mondo, mentre l’inizio del secolo scorso traccia confini densi, che poco hanno a che fare con l’economia quanto con le posizioni di potere, l’altra metà sembra azzerarli.

Svalbard: Silent Games, l’inizio dei giochi in tempi di guerra
Francesco Biscaglia, regista del film, e Niccolò Voltolini descrivono un luogo tanto aspro quanto affascinante. Le isole Svalbard sono posizionate nel Mar Glaciale Artico, al nord del mondo, ai confini dell’attività umana. In Svalbard: Silent Games scopriamo l’esistenza di una comunità che si è stratificata nel corso della storia contemporanea e che, nelle sue innumerevoli contraddizioni, continua a sopravvivere combattendo ogni giorno dinamiche di potere che pur la dilaniano.
A causa delle condizioni di isolamento e della notte polare già all’inizio delle attività minerarie, le comunità sono colpite da numerosi episodi di depressione. Per questa ragione il governo e le compagnie minerarie stesse iniziano a promuovere le attività sportive. Prima della Seconda Guerra Mondiale iniziano gli scambi sportivi, il divertimento e la competizione amichevole diventano un dolce velo che nasconde i macro temi che caratterizzano gli anni tumultuosi dei luoghi fuori: mostrare la cultura migliore, che il sistema socialista era migliore di quello capitalista e viceversa.
Eppure quando nel mondo fuori la guerra si trasforma, raffreddandosi e stanziandosi in blocchi a compartimenti stagni, nelle isole Svalbard la competizione si affievolisce facendo emergere lo scambio: la sacra dimostrazione che un mondo pacifico poteva pur esistere. Mentre nel mondo fuori non si riusciva a comunicare e comprendere, nel mondo al confine i bambini imparano a capirsi al di là della lingua, nei gesti semplici del gioco e dell’umana accoglienza.

Il ritorno al silenzio
L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha segnato una linea spartiacque nella storia mondiale, nel micro e nel macro sistema, a partire dalla vita quotidiana fino ai rapporti politici ed economici. Le fortissime tensioni del mondo altrove sono riuscite a penetrare nel mondo dentro a Svalbard, mettendo in discussione anni di scambi e pacifici incontri, distruggendo ponti e riportando il peso del silenzio nella vita delle comunità che abitano l’arcipelago.
Quello che risulta più interessante nel documentario di Biscaglia, oltre all’estrema consapevolezza nell’utilizzo del mezzo con cui sceglie di raccontare la storia dei cittadini di Svalbard, è la singolare decisione, in un momento in cui tutti corrono a prendere una posizione e chiudersi in barricate difensive, di sospendere il giudizio e far parlare i suoi intervistati. Tutti i suoi protagonisti parlano di pace in modo diverso, spesso come aspirazione altre come mera utopia.
Il found footage e il montaggio sonoro che accompagna i fermo immagine intervallano Svalbard: Silent Games e i momenti in cui il racconto trova spazio per respirare, rivelando sempre di più le contraddizioni in termini di questo strano territorio che nel micro rispecchia il macro. Le comunità di Svalbard vivono da più di un secolo un uroboro temporale e in cui, nonostante la storia abbia dato le giuste lezioni, tutti sembrano ricadere nello stesso cortocircuito. D’altronde sarebbe stato un esperimento troppo bello da vedere per esistere: quello in cui le comunità decidono di autodeterminarsi a prescindere dai governi, in fondo a Svalbard è tutto troppo lontano e, forse proprio per questo, più vicino alla speranza.