Si è svolta dal 20 al 23 marzo a Roma la quinta edizione del Festival del Cinema Tedesco.
Fra tutte le nuove interessanti gemme provenienti dalla Germania, spicca Another German Tank Story, lungometraggio d’esordio del giovane regista Jannis Alexander Kiefer.
La commedia nera racconta delle vicissitudini dei cittadini di un piccolo villaggio tedesco, Wiesenwalde, quando arriva una troupe cinematografica americana a girare un film sulla Seconda guerra mondiale, stravolgendo ogni equilibrio.
Abbiamo intervistato il regista per voi.

Another German Tank Story è il tuo primo lungometraggio. Cosa ti ha fatto decidere che questa era una storia che valeva la pena raccontare e da dove è nata l’ispirazione?
Ho fatto un cortometraggio prima, il titolo inglese è Good German Work. Questo film è ambientato nello stesso villaggio di Another German Tank Story. È un pre-film in un certo senso, una storia parallela che racconta sempre del villaggio e delle persone che ci vivono mentre degli americani girano un film lì nei paraggi.
Mentre producevo il cortometraggio avevo così tante idee sul villaggio e su possibili nuovi protagonisti che ho capito di voler fare un lungometraggio sulla stessa idea. Il corto ha lo stesso senso dell’umorismo e ha avuto un bel successo: abbiamo partecipato a molti festival in giro per il mondo e le persone mi hanno incoraggiato a lavorare a un film dall’idea del cortometraggio.
Allora hai una tua personale Wiesenwalde da cui è nata l’idea?
Forse! Wiesenwalde è un villaggio immaginario, non esiste. Ho deciso di creare una nuova cittadina perché non volevo prendere in giro le persone che vivono in questo o quell’altro paese specifico. Ho detto a me stesso e al mio team che volevo che Another German Tank Story fosse un po’ come una fiaba. Non è iperrealismo ed è per questo che volevamo creare da zero un mondo nostro, un mondo nuovo.
Wiesenwalde è ispirata alla zona di Brandeburgo, intorno a Berlino. I villaggi della zona a volte sembrano poco realistici, un po’ bloccati nel tempo. Alcuni di loro sono davvero belli e altri sembrano sperduti perché non hanno nessun collegamento con le grandi città, nessuna infrastruttura. E molti dei villaggi hanno una specie di fiaba tipica del villaggio, una leggenda. Così ho deciso che volevo che anche Wiesenwalde avesse la sua leggenda fondatrice.
I personaggi sono davvero definiti in ogni loro stranezza, in ogni sfumatura. Anche in qualità di co-autore del film, come hai lavorato sulla loro caratterizzazione prima sulla sceneggiatura e poi sul set?
Io sono cresciuto in un villaggio. Ho un mio quaderno dove prendo appunti da molti anni quando incontro delle persone, specialmente a casa mia o in villaggi che non conosco. Non è che alcune persone specifiche mi abbiano ispirato direttamente per i personaggi, ma sai, è un mix di situazioni e caratteristiche proveniente dalla vita quotidiana nei paesini e la mia idea era di riportare quell’atmosfera.
Volevo fare un film sulle persone invisibili: non le più belle, non le persone di successo, ma le persone che non sono sullo schermo del cinema tutti i giorni.
È stato fin dall’inizio un punto importante anche avere generazioni diverse nel cast principale. Succede spesso nelle comunità di questo tipo che i giovani e gli anziani vivano nella stessa casa o comunque che siano vicini, sono più connessi che nelle città. L’idea era di avere nel cast principale ventenni come Wolffi e e Tobi che interagissero con la persona più anziana del luogo. Ho cercato di collegare un po’ tutte le storie, creando un racconto corale.

Fra tutti i curiosi protagonisti ne hai uno preferito?
Cambia ogni giorno, in realtà. Tobi ha 20 anni e quindi mi sento più legato a lui per la sua situazione. Ma anche il personaggio di Rosie significa molto per me. La sua storia è ispirata ai miei nonni perché i miei nonni aspettavano il loro miracolo personale. Il loro più grande obiettivo era morire senza dolore, nella loro casa e insieme. Quindi questa è la storia dei personaggi che mi toccano di più a livello emotivo.
Ma forse il primo personaggio che ho sviluppato è stato probabilmente Wolffi perché ho lavorato come addetto alle comparse. E ho incontrato molti giovani che lavoravano come extra, specialmente sui set cinematografici ambientati durante la Seconda guerra mondiale.
Ho conosciuto così tanti tipici giovani berlinesi che prendono in mano un’arma di scena, e ho notato che in qualche modo le persone si trasformano in dieci minuti se gli dai un’uniforme e un fucile. Probabilmente sono studenti, intelligenti e moderni ma se gli dai un’arma e l’uniforme nazista poi si sentono potenti e fanno battute stupide tutto il tempo.
Questa è stata una delle prime ispirazioni per i personaggi.

Proprio a questo proposito volevo chiederti, qual è la relazione tra tutte le microstorie individuali degli abitanti del villaggio e la storia più grande della cittadina e della Germania? E come hai determinato che volevi usare un tono più satirico per descrivere questo contrasto?
In generale penso che sia solo la mia prospettiva sulle storie, non voglio fare film troppo strappalacrime. Mi piace guardare film molto emozionanti, ma come regista non sono io.
Credo che le scene e la trama di Rosie siano le cose più emozionanti che io abbia mai realizzato. Mi piace tenere questa distanza anche cinematograficamente, come se la macchina da presa a volte fosse lontana dai personaggi e tu potessi vedere molto soprattutto delle stanze e dei luoghi.
È come se stessi guardando il villaggio dalla prospettiva di una mosca sul muro. Another German Tank Story ha molti personaggi principali e l’idea era di dare allo spettatore la possibilità di saltare da un personaggio all’altro.
Rispetto alla storia e alla biografia dei personaggi, io non volevo dare un punto di vista giudicante. Ad esempio Rosie e suo marito hanno un carro armato e vecchie armi. Nonostante ciò io in quanto regista non voglio giudicarli e dire in maniera diretta che sono dei mostri, che il marito era sicuramente un nazista o invece semplicemente un collezionista. Io vorrei portare lo spettatore al cinema e far sì che trovi la sua opinione e lettura personale.

Invece il rapporto diffidente tra gli abitanti del villaggio e la troupe americana è un residuo della loro relazione storica?
L’idea era di far sì che gli americani fossero come degli alieni. Per esempio le loro auto che sfrecciano per il villaggio sono rumorose, nere e non vedi le persone dentro. Non si relazionano direttamente con le persone del territorio.
Da ragazzo che viene da un villaggio ho deciso di concentrarmi sulle persone locali e sul loro punto di vista. Non volevo fare un film su Hollywood, non sono interessato a fare un film sugli attori americani. Il focus è più sulle persone che solitamente sarebbero invisibili. L’idea era quindi di rappresentare uno scontro culturale, ma è troppo facile prendere in giro un contrasto così in maniera esplicita mettendo le persone a confronto. Quindi ho deciso di mostrare solo il punto di vista dei cittadini.
L’unico americano che infatti vediamo è una controfigura, anche lui una persona invisibile rispetto a quelle a cui si da solitamente attenzione nel mondo cinematografico.
Come hai deciso di usare proprio un carro armato come tema ricorrente su cui gira il film?
Era abbastanza difficile mostrare in maniera visibile nel nostro film a basso budget che c’era una vera troupe di Hollywood nel villaggio. Avevo paura all’inizio della produzione che se avessimo solo detto alla radio che c’era un team di Hollywood non sarebbe stato credibile. Quindi con il direttore della fotografia e il cameraman abbiamo cercato una cosa, un oggetto di scena, che sembrasse costoso e reale e che potrebbe provenire da un set cinematografico davvero grande. Non volevamo far vedere solo un furgone con attrezzatura leggera o qualcosa del genere. Volevamo avere qualcosa di storico, di costoso e potente, che non vorresti avere nel tuo giardino.
Allora abbiamo trovato un carro armato da un collezionista privato nel Brandeburgo, che vive non lontano dal villaggio in cui abbiamo girato e questa è stata la cosa migliore. È reale e dall’aspetto potente, pericoloso, storico. Non lo si può ignorare e quindi si adatta al tono satirico.
C’è un bel lavoro sul suono e sulla musica, che è un tema ricorrente anche a livello narrativo per via dei riferimenti a Telemann. Come ci hai lavorato?
La musica significa molto per me e raramente l’ho usata nei miei cortometraggi perché secondo me la colonna sonora per un film deve essere perfetta.
Nelle prime fasi di sviluppo del film ho avuto l’idea del compositore Telemann. C’è una leggenda su di lui che racconta come sulla strada per un grande concerto a Dresda rimase bloccato in un villaggio. Ho voluto basarmi su questo per la leggenda fondatrice di Wiesenwalde e poi ho ascoltato Telemann per molto tempo. Volevo collegarlo musicalmente perché come ho detto la colonna sonora è piuttosto importante per me. Ho bisogno di una ragione per usarla, voglio che abbia un legame molto forte con il protagonista e con i luoghi.
Quindi ho chiesto al compositore Fabian Zeidler di creare una colonna sonora ispirata a Telemann e ci sono dei piccoli passaggi uguali ad alcuni del compositore settecentesco. Abbiamo usato solo gli strumenti che usava lui, e così abbiamo lavorato a lungo per creare un nuovo sound per il film.
Il protagonista Tobi ad un certo punto dice di aspettare il suo miracolo personale quando un altro personaggio gli chiede delle sue ambizioni. Questo sembra essere l’approccio generale dei cittadini. Potresti raccontarci un po’ dell’importanza del miracolo nel film?
Certo. La mia vita, come quella di chi di solito vive in queste cittadine, era lontana da qualcosa come Hollywood o dal cinema o da un miracolo vero e proprio. E mi chiedevo frequentemente se ci fosse un miracolo personale per tutti e quale potesse essere il mio. Anche ora, è un piccolo miracolo per me essere a Roma al Festival del Cinema Tedesco e aver fatto il mio primo lungometraggio senza grandi fondi.
Quindi ho cercato di dare a tutti i personaggi la speranza perché penso che sia fondamentale, sia con i tempi che corrono politicamente nella realtà, ma anche per i personaggi del mio film. Tutti hanno bisogno di un po’ di speranza e forse tutti aspettano il loro miracolo personale, che per ognuno di loro rappresenta qualcosa di diverso.

Qual è il ruolo degli animali? Tornano spesso nel film, come il coniglio Falco che è quasi un protagonista.
L’idea era di avere molti animali anche nel sound design perché Wiesenwalde è un villaggio in campagna. Paradossalmente nei posti in cui abbiamo girato il film non c’erano quasi fattorie, quindi in post-produzione abbiamo aggiunto più suoni naturali. Così anche a partire dalla sceneggiatura volevo avere una connessione con la natura, volevo che la maggior parte dei personaggi lavorasse all’aperto con gli animali.
Allora ho pensato a Tobi e al coniglio. Tobi per me è un outsider, ma molto amichevole e caloroso con gli animali. Mi piace l’idea di lui che parla la maggior parte del tempo con un coniglio e non con sua madre o con il suo amico. È un outsider silenzioso che ha la sua zona di comfort quand’è con Falco, come se fosse un confidente.
Anche i pesci sono importanti a livello narrativo. Nel caso di Rosie, lei vuole morire, ma se hai un pesce o un animale ne sei responsabile e non puoi ucciderti senza prendertene cura. Quando i pesci moriranno lei avrà il suo segnale per lasciarsi andare. Lei vuole davvero morire perché ha avuto una bella vita, ma deve liberarsi delle sue responsabilità, fra cui i pesci, e della sua cattiva eredità prima di morire felicemente.
Qual è stata la sfida più grande durante il film durante tutto il processo e la più grande soddisfazione?
Ovviamente come progetto a basso budget abbiamo avuto problemi di fondi fin dal primo giorno. Another German Tank Story è il mio film di laurea, quindi io e il cameraman, il montatore, il sound design, eravamo tutti laureandi nella stessa scuola di cinema. Ho lavorato per quasi quattro anni al film senza ottenere soldi. Dopo le riprese c’era rimasto davvero poco per la post-produzione, per il sound design e la correzione del colore. Abbiamo cercato a supporto e sponsorizzazioni e abbiamo cercato di entrare in concorsi e festival per la post-produzione. Abbiamo vinto un premio in Italia ad un concorso per rough cuts e siamo stati sponsorizzati da Cine Chromatix Italy con un premio e questo ha aiutato molto.
Senza questo premio e con i soldi che avevamo non avremmo avuto nessuna possibilità di fare la post-produzione, è stato un mucchio di lavoro organizzativo. Forse la sfida più grande è stata non dimenticare che in realtà fai un lavoro creativo quando passi tanto tempo a cercare ogni tipo di opportunità .
A Berlino ci sono molti attori o società di noleggio tecnico quindi puoi trovare supporto in molti modi per la produzione cinematografica, sono stato fortunato. Ho sognato di realizzare un lungometraggio alla scuola di cinema, poi l’ho fatto davvero e questo non è comune. Sono davvero molto felice della situazione e grato, ma sono le due facce della medaglia.
La più grande soddisfazione è stata questa, essere in grado di fare davvero questo film.
La prima mondiale al festival del cinema di Shangai ha significato molto per me. È molto importante soprattutto come giovane regista presentarsi a festival come questi.
Ho lavorato per tre anni senza sapere come avrebbe potuto reagire il grande pubblico. E poi a Shanghai o Monaco, vedere 500 persone sedute in sala che ridono alle tue battute, allora lì ti rendi conto che ciò che hai fatto ha funzionato.
E forse la cosa importante che ho imparato è che mi piacciono le commedie e l’umorismo, e ho capito che voglio rimanere sul lato comico dei film perché è così divertente ridere insieme alla gente al cinema.
Onestamente spero semplicemente che gli spettatori che hanno visto Another German Tank Story siano stati lì, per 96 minuti, nel mondo che abbiamo creato. E non mi interessa qual è il personaggio preferito o altro, se solo vi siete dimenticati lo smartphone per un’ora e mezza, allora sono felice.