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Venezia 70: “Still life” di Uberto Pasolini, premio Orizzonti per la migliore Regia (Orizzonti)

Dopo dodici giorni di film, l’unico che mi ha veramente fatto saltare sulla poltrona è stata quest’opera che, con mio grande sollievo, almeno porta una firma italiana, quella di Uberto Pasolini

Pubblicato

il

Anno: 2013

Durata: 87′

Genere: Commedia/Drammatico

Nazionalità: Italia

Regia: Uberto Pasolini

Dopo dodici giorni di film, l’unico che mi ha veramente fatto saltare sulla poltrona è stata quest’opera che, con mio grande sollievo, almeno porta una firma italiana, quella di Uberto Pasolini; seppure l’ambiente sia visibilmente British, così come il cast, tra cui Eddie Marsan, che è il lusso brillante di questo piccolo racconto che ambisce a nobili significati.

Uberto Pasolini ha una formazione da produttore (che annovera l’intramontabile Full Monty – Squattrinati organizzati), ma dal 2008, dopo l’esordio di Machan – La vera storia di una falsa squadra, si dedica anche alla regia. Still life è quindi matematicamente la seconda opera; ma dal punto di vista della maturità del linguaggio, siamo nel pieno di una carriera cinematografica, e lo dimostra il risultato artistico preciso, bilanciato, portatore di una delicata riflessione sulla solitudine, sulla risoluzione della vita e dei conflitti, sulla sospensione delle emozioni nel tempo.

John May è un funzionario comunale, un dipendente scrupoloso, pignolo e profondamente coinvolto nel proprio lavoro: egli si dedica al ricomporre l’identità di defunti sconosciuti, le cui vite si sono perse nella solitudine, che May combatte fino all’ultimo cercando di riunire gli affetti del passato, oppure regalando loro un commiato dignitoso. Purtroppo May, nel pieno di una indagine, viene rimosso dal suo incarico, perché il capo (stigma della società moderna, votata all’avanzamento asettico) lo ritiene ormai un dipendente superfluo; per tutta risposta, egli si sente ancora più in dovere di riallacciare i fili sciolti della vita dell’ultimo solitario ubriacone assegnatoli, Billy Stoke.

L’umanità inquadrata di cui May si fa portatore è un misto più dimesso e sospeso, tra il George di A single man e il caro vecchio Melvin Udall di Nicholson. Lavorando con i processi di immedesimazione del pubblico, Pasolini ci conduce in un primo tempo a dubitare di questo ometto tozzo dal dubbio gusto estetico, che pare agire per un vago interesse necrofilo, andando a profanare i nidi e le intimità (mutande stese ovunque!) di queste anime passate. Poi, piano piano, dalle pagine sfogliate di un album fotografico ai discorsi funebri, ne comprendiamo la volontà consolatoria, la piena condivisione di quelle vite sole. May è a tutti gli effetti l’assolutore, colui che riempie il vuoto dell’isolamento; nel suo prodigarsi disinteressato ne penetriamo la vita squadrata, la sua still life, intimamente mossa da uno spleen benevolo e un po’ incosciente, a cui finalmente sarà data quella opportunità ch’egli stesso ha concesso più volte.

Per Pasolini forse non è importante il quando, nella vita o nella morte, purché sia possibile godere della vicinanza e della ricchezza degli affetti. In questi ambienti freddi e asettici, il colore compare solo quando l’emozione ritorna, poiché è ciò che realmente determina l’esistenza viva degli esseri umani, i quali altrimenti, vivrebbero nel bilico di un moribondo distacco.

Rita Andreetti

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