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Rome International Documentary Festival

‘Death of a Saint’: lettera aperta a una madre

Il graduale disvelamento di un vissuto umano idealizzato e mai conosciuto

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death of a saint

Death of a Saint di Patricia Bbaale Bandak è stato presentato al Rome International Documentary Festival nella giornata di domenica 8 dicembre. Il documentario ripercorre un particolare periodo dell’esistenza della regista, impegnata nella scoperta di una figura materna che per tutta la vita le è sfuggita. La donna, Imelda, è stata assassinata in circostanze misteriose quando la figlia aveva solo due anni, in Uganda, paese d’origine della famiglia della regista.

Il tema del viaggio, concreto e ideale

Death of a Saint fa proprio il tema tradizionale del viaggio, che si rivela essere fisico, ma anche ideale. La regista per scoprire chi è stata sua madre dovrà fare ritorno nel suo paese d’origine, l’Uganda, abbandonando momentaneamente la Danimarca, dove vive con il compagno e la figlia Imelda.

In aggiunta, la dimensione astratta, sempre in riferimento al tema del viaggio. Patricia è impegnata nell’elaborazione di un lutto che non è stato mai affrontato, né tantomeno esplicitato in famiglia, così da rimanere pericolosamente nel limbo delle emozioni e dei vissuti repressi. É particolarmente evidente il bisogno della protagonista, con questo viaggio interiore, di sanare una ferita intergenerazionale, segno di un’importante maturità e responsabilità emotiva, pure esercitata nei confronti della figlia, a cui ha affidato lo stesso nome della madre. L’obiettivo, peraltro dichiarato, è quello di evitare di trasmettere il trauma dell’abbandono, che ha preso forma negli anni dell’infanzia e animato il tempo successivo della vita di Patricia.

Il viaggio della protagonista, reale e metaforico, alla scoperta della madre può avere inizio, però, solo dopo aver espresso – a favore di cinepresa – tale intento di ritorno alle origini e ai quesiti di una storia irrisolta, ai familiari. La gradualità del racconto, che ne svela la sua necessarietà e insieme la sua delicatezza, si rivela dunque fondamentale, nella condivisione di un vissuto che è in primis intimo, e familiare. La cinepresa contribuisce a questo obiettivo indagando, in religioso silenzio, i pensieri e le parole dei protagonisti: sono frequenti, infatti, le inquadrature che si concentrano sui volti dei soggetti, grazie all’utilizzo della tecnica dello zoom.

L’emersione della figura femminile nelle diverse culture

Gradualmente, come si è detto, la cinepresa in Death of a Saint permette l’emersione della figura di Imelda, seppur con modalità e forme diverse, a seconda della cultura dalla quale il racconto proviene. In Uganda, infatti, vi è una tradizione per la quale non si può parlare male di una persona, all’indomani della sua morte. Nel momento in cui la regista è impegnata a parlare con i famigliari della figura della madre, tutto ciò che emerge è che Imelda fosse una donna estremamente religiosa e dedita alla venerazione di Dio.

Patricia è profondamente sconfortata, perché non è (solo) questa la donna che vuole conoscere. Il suo desiderio, infatti, è quello di entrare in contatto, per quanto possibile, non con una figura idealizzata, ma con una persona vera; paradossalmente, in carne e ossa. Si tratta di un desiderio di verità, che è lo stesso ad aver rappresentato il motore del viaggio intrapreso dalla regista.

L’unica che nel suo racconto non santifica Imelda, è la sorella di quest’ultima. Costei racconta a Patricia quanto sua madre fosse orgogliosa, ricorda che non le piaceva affatto cucinare, e ancora che era una gran ritardataria. Aspetti piacevoli e meno piacevoli di un carattere che tuttavia è stato in grado di rendersi amabile in vita agli occhi degli altri; quegli stessi occhi – di parenti, amici e familiari – che ancora si inumidiscono all’occasione di poter parlare di lei.

Death of a Saint è necessità di racconto

La insegnava Omero nell’Odissea, passando per Boccaccio nel Decameron, e ancora Shakespeare in diverse tragedie, la potenza del racconto come farmaco per il dolore; il potere lenitivo della narrazione che è in un primo momento – necessariamente – specchio dei propri dolori, oltre che premessa indispensabile ad un autentico sforzo di condivisione; sempre con l’obiettivo, quindi, di arrivare agli altri, rivelandosi fonte preziosa di ascolto e supporto, molto più del mero rigurgito, più o meno invadente, del proprio io, affamato di attenzione.

Death of a Saint fa propria questa lezione che viene dalla letteratura e la veicola nella sua forma di espressione: il cinema. Patricia sta ricucendo i fili del suo passato, per riuscire ad ottenere un presente meno ingarbugliato, che non incespichi più nei ricordi. Che non cada di fronte alle paure e che non tremi di fronte ai cambiamenti. É un gesto estremamente potente di presa di cura di sé e anche della propria famiglia.

L’importanza del tema della memoria, della celebrazione di questa, del tempo che scorre, ma non passa e neppure si autodistrugge, ma è, invece, in grado di donare ricordi e visioni che è dovere custodire al sicuro nel proprio cuore. Insieme al fondamentale tema dell’appartenenza, che neanche una morte violenta può cancellare, nel segno dell’amore di un rapporto – specie quello madre-figlia – che prosegue nel tempo, anche se in spazi separati.

Death of a Saint

  • Anno: 2024
  • Durata: 91'
  • Genere: Documentario
  • Nazionalita: Danimarca
  • Regia: Patricia Bbaale Bandak