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Squarci di settima arte: il cinema totale di Stanley Kubrick

Stanley Kubrick riplasma il tempo filmico, chiude definitivamente l'era delle narrazioni chiare, lucide, lineari e programmate. E lo fa senza mai rinunciare a quel magico vortice di suspense, sorpresa, incanto, potenza e affabulazione che ha fatto della sua opera uno dei rarissimi casi in cui una poetica autoriale convive con un pubblico eterogeneo

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Il suo nome è sinonimo di cinema nella sua forma più alta, un’arte totale capace di trascendere i limiti contingenti dell’immagine in movimento. Un perfetto equilibrio tra autorialità e genere, tra genio creativo e sregolatezza visionaria. Kubrick incarna un’abnegazione assoluta e totalizzante, unita a una precisione millimetrica e maniacale, dove creazione e ricreazione, invenzione e ricerca si fondono in un unico capolavoro senza tempo.

Stanley Kubrick corrisponde all’assoluto e all’intimo, alla grandezza sterminata e all’astrattezza significante, al cosmo e all’anima, alla potenza di un’opera dai contorni indefiniti, irriducibili alla pochezza di qualsiasi definizione, concetto, parola.

Con un numero abbastanza esiguo di titoli – appena 13 in più di 40 anni di carriera – il Maestro di New York ha saputo veicolare una delle riflessioni più adulte, mature e stimolanti sulla natura del creato, l’origine della vita, il mistero del cosmo e insieme sull’universo -più immenso e diseguale di quello fisico- dell’umano, sugli abissi insondabili dello spirito, la gretta piccolezza dell’essere al mondo, la schizofrenica marea di torbide ossessioni propria del vivente, le contraddizioni del vivere sociale e delle epoche storiche tra passato, presente e futuro, attraverso una linea di speculazione impregnata di rigore scientifico, presupposti estetici, filosofici e morali di valore incalcolabile.

Una parabola capace di passare attraverso tutti i generi storicamente consolidati e di rivisitarli attraverso il filtro di una mente estranea alle convenzioni costringenti e ai canoni sclerotizzati.

Il regista Stanley Kubrick durante le riprese, emblema del suo metodo preciso e visionario.

Stanley Kubrick l’esordio

Paradossalmente, l’esordio del regista statunitense è una pellicola di scarso valore estetico, da lui stesso rigettata in seguito. Si tratta di Paura e desiderio, film bellico carico di tutti i limiti di un esperimento universitario totalmente autoprodotto (così la definì il cineasta) lungo poco più di un’ora, già caratterizzato da quel radicato anti-militarismo -unito all’anelito universalizzante- che costituirà uno dei fulcri portanti della sua poetica ma penalizzato da un ritmo stanco, un’andatura schematica, diseguale, verbosa, una scrittura retorica.

Un esordio imperfetto ma già visionario: Fear and Desire, genesi di un autore in divenire.

 

 

Il primo successo: Il bacio dell’assassino

Di ben altro valore Il bacio dell’assassino, primo contatto di Kubrick con i labirintici e contorti stilemi del noir e con la sua diacronica struttura fatta di rimandi e continui scivolamenti temporali, imperniato sulla breve e appassionata storia d’amore tra un pugile e una ballerina orfana impiegata presso una squallida sala di incontri, ostacolata dalle sordide mire di un viscido proprietario, innamorato di lei. Tra magistrali chiaroscuri, scambi di persona, finestre mai abbastanza chiuse che permettono di guardare ed essere spiati, tradirsi o mettersi in salvo, inquietanti depositi di manichini che si fanno luogo di scontro tra vita e morte, Stanley Kubrick mette in luce a soli 28 anni una straordinaria padronanza del mezzo unita a una capacità pressoché inappuntabile di muoversi nei binari predefiniti del sistema dei generi statunitensi.

L’autore si forma e si afferma

Al secondo film della sua carriera, il cineasta conclude a pieni voti il suo “tirocinio” cinematografico e, dimostrando di non avere più nessuna regola da apprendere, dà il via a una rivisitazione totalmente e definitivamente personale di quelle strutture su cui il cinema classico americano fondava da decenni la propria ragion d’essere, autocertificandosi appena prima della rivoluzione messa in atto dalla Nouvelle Vague, autore nel senso più pieno e profondo del termine.

Killer’s Kiss (1955): un noir essenziale, già ricco di suggestioni visive e tensione emotiva.

Noir

E’ proprio al terzo lungometraggio che Kubrick giunge al capolavoro con il monumentale Rapina a mano armata, noir moderno che racconta la pianificazione e la messa in atto di un colpo grosso a un banco di scommesse di un ippodromo, riplasmando attraverso il proprio personalissimo senso del cinema il genere e rinnovando l’archetipo del cosiddetto caper movie, in una struttura che fungerà da paradigma intoccabile per generazioni di registi. Amplificando a dismisura l’operazione già messa a punto con il film precedente, Kubrick forza lo scheletro già contorto del noir e aggiunge al tipico groviglio di personaggi, identità, amore e morte, una struttura temporale esplosa che seziona l’intreccio narrativo in temporalità e punti di vista che si susseguono, si alternano, si ripetono con scarti e variazioni, lasciando che lo spettatore non saturi mai con certezza inattaccabile la propria esigenza di sapere e anzi si trovi di volta in volta spiazzato da un passo indietro diegetico che corrisponde a un’inversione del conoscere.

Kubrick riplasma -con una maestria mai sperimentata prima- il tempo filmico, chiude definitivamente l’era delle narrazioni chiare, lucide, lineari e programmate. E lo fa senza mai distogliere il proprio pubblico da quel magico vortice di suspense, sorpresa, incanto, potenza e affabulazione che ha fatto della sua opera uno dei rarissimi casi in cui una poetica autoriale, capace di sperimentare e mettere in crisi le categorie estetiche pre-costituite, convive con un pubblico eterogeneo, vastissimo e di ampio respiro.

Rapina a mano armata (1956): montaggio non lineare, tensione costante e un nuovo linguaggio per il noir.

Zone inesplorate

Dopo l’approccio al noir, Kubrick decide di tornare alle atmosfere di quel primissimo “esperimento studentesco” a più riprese rigettato e firma Orizzonti di gloria, destinato per converso a diventare uno dei massimi capolavori del cinema bellico, e non solo.
>Le inesplorate zone boscose in cui i soldati americani si ritrovavano smarriti e privi di speranza in Paura e desiderio lasciano il posto a quell’anticamera dell’inferno che è una trincea francese della prima guerra mondiale, continuamente alternata al rigore classicheggiante dei più inquietanti e mostruosi palazzi della sovrintendenza militare in cui maggiori senza scrupoli programmano le esistenze dei soldati al fronte come fossero merci da baratto. Kirk Douglas -anche produttore- fa da contraltare a questi indegni tutori della legalità bellica, dimostrando in più di un’occasione un’umanità e un attaccamento ai propri uomini che nei primi è negata e assente.

In questo devastante affresco di un’umanità alla deriva, il cineasta dà vita a una delle marche più tipicamente riconoscibili del suo cinema, quella carrellata ancorata ai propri personaggi -a precedere o a seguire- che tornerà come un leitmotiv ossessivo praticamente in tutti i suoi lavori.
>Qui inoltre colora queste costanti carrellate di un sottotesto simbolico, carico di notazioni morali e psicologiche: mentre i movimenti legati agli ufficiali corrotti assumono un orientamento curvilineo, zigzagante, in grado di richiamare le spirali serpentiformi dei rettili e tutto l’allegorico bagaglio di connotazioni negative (meschinità, opportunismo, smodata supremazia dell’Ego, tradimento) di cui la tradizione occidentale -e non solo- li ha caricati; i carrelli che precedono l’esemplare generale interpretato da Douglas sono caratterizzati da una linearità priva di smottamenti o scosse, in un evidente richiamo alla legalità incorruttibile come al coraggio di una giustizia purtroppo negata.

Orizzonti senza gloria (1957): il pacifismo crudo di Kubrick in un racconto di guerra che sfida la retorica ufficiale.

Spartacus, Lolita  e altri film di Stanley Kubrick

Tre anni dopo ancora Kirk Douglas -di nuovo produttore e protagonista- scalza Anthony Mann dalla cabina di regia di Spartacus e impone Stanley Kubrick che per la prima volta si ritrova schiacciato sotto il peso delle manie hollywoodiane (il film fu finanziato dalla Universal), costretto ad accontentare le esigenze di quelle alte sfere mosse da un ben noto conservatorismo, e capace insieme di imprimere piccoli scarti -di sceneggiatura come di regia- tesi ad ancorare la pellicola al tessuto coerente della sua poetica. Ne esce un ibrido di grande interesse che fonde gli stilemi classici del kolossal epico con alcune scelte originali, prima fra tutte la resa della battaglia finale con la reiterazione di campi lunghi o lunghissimi atti a mostrare con rigore filologico (lo stesso che permeerà altri suoi film storici) i movimenti e le avanzate rigidamente perfette delle coorti romane, in opposizione alla forza brutale e diseguale dei ribelli. La stessa opposizione chiave che domina il film, quella che oppone gli schiavi guidati da Spartaco contro il logoro e corrotto potere di Roma, viene inoltre riletta da Kubrick attraverso quella chiave universalizzante già paradigmatica del precedente Orizzonti di gloria (e in fondo anche del primo Paura e desiderio).

Spartacus (1960): un kolossal epico sotto il controllo dello studio, ma con lo sguardo già inconfondibile di Kubrick.

L’esperienza di Spartacus tuttavia frustra pesantemente il cineasta statunitense che mal digerisce l’invadenza della produzione all’interno del circuito della lavorazione del film come l’impossibilità di sovrintendere liberamente a tutte le fasi della realizzazione. Così, al pari di altri geniali cineasti quali Orson Welles ed Eric von Stroheim, Kubrick decide di lasciare definitivamente gli Stati Uniti, prendendo la volta dell’Inghilterra dove nel 1962 gira Lolita, adattando per il grande schermo il capolavoro letterario di Nabokov, uscito tra fiumi di controversie appena sette anni prima. Il cineasta statunitense inizialmente investe lo stesso scrittore -appassionato di cinema- del ruolo di scrivere la sceneggiatura. Nabokov elabora una prima enorme stesura (oltre 400 pagine) ma su consiglio del regista la sfoltisce ampiamente. Al momento della consegna riceve i complimenti di Kubrick ma alla presentazione della pellicola definitiva si accorge della profonda manipolazione che il cineasta newyorkese ha attuato al suo scritto, di cui a detta sua non è rimasto che “il 20% del lavoro originario”. In pratica, nonostante nei credits del film il nome di Nabokov spicchi imperioso come autore dello script, Lolita costituisce il primo -o quantomeno il più paradigmatico- esempio della straordinaria capacità di adattamento di Stanley Kubrick (paragonabile forse solo a quella leggendaria del nostro Luchino Visconti), dotato di un’innata sensibilità nei confronti dell’immagine in movimento e capace di dar vita con maestria senza eguali alle parole rinchiuse nelle paratie stagne della carta stampata.

Nel dar forma e vita al torbido intreccio amoroso tra un professore e una “ninfetta” adolescente, il cineasta rende giustizia alla complessità di evocazioni e temi elaborata dallo scrittore russo, descrivendo senza -troppi- freni l’annichilimento e il vortice di follia maniacale in cui decade il protagonista, la sua doppiezza strutturale ambiguamente riflessa nell’alter-ego trasformista Quilty (interpretato da un grandissimo Peter Sellers), all’interno di un apparato complessivo che richiama lo specchio, la reiterazione, la duplicità finzionale, in una parola il cinema stesso.

Lolita (1962): l’adattamento controverso del romanzo di Nabokov, fra provocazione e raffinata estetica.

Il Dottor stranamore: tra i suoi migliori film

Successivamente Kubrick giunge alla fantascienza e si fa interprete dei suoi diversi orientamenti, realizzando in soli 7 anni tre dei massimi capolavori del genere e del cinema tout court, muovendosi tra distopia e riflessione di matrice filosofica sul cosmo e il destino dell’uomo.

1964: Il dottor Stranamore – commedia-incubo e satira politica

Nel 1964 realizza Il dottor Stranamore, ovvero: come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba, “commedia-incubo”, dramma surreale, farsa grottesca dai toni politici che s’inscrive perfettamente nel clima di tensione proprio del mondo bipolare post-secondo dopoguerra.

Tra simboli fallici, tagliente umorismo nero, una parodia anti-militarista sempre tesa a screditare le imbecillità ipocrite ed egoiste delle alte sfere e uno strepitoso Peter Sellers che -al vertice del suo istrionismo- recita in ben tre parti diverse, Kubrick narra di un futuro prossimo -o forse di un tristemente ipotetico presente- in cui la tanto temuta bomba nucleare è esplosa davvero, provocando un’apocalisse atomica.

Struttura a orologeria: tensione e comicità surreale

Nei modi di un perfetto congegno a orologeria impregnato di suspence e satira, il cineasta alterna lo stretto abitacolo di un B-52 diretto verso l’Unione Sovietica per sganciare l’ordigno mortale, la vasta sala del Pentagono in cui uno scienziato ex-nazista, molti generali e il Presidente in diretta telefonica decidono le sorti dell’umanità e le vicende del colonnello Mandrake che tenta di fermare la folle missione, in un crescendo di disavventure ad alto tasso di comicità surreale.

L’impatto e la svolta kubrickiana: 2001: Odissea nello spazio

Eppure nonostante l’incredibile successo di critica e di pubblico che Il dottor stranamore ottiene in tutto il mondo e al di là dell’incalcolabile influenza prodotta su decine e decine di cineasti avvenire, la vera svolta del cinema kubrickiano -e non solo- giunge quattro anni dopo, in quel 1968 che vede l’uscita di 2001: Odissea nello spazio, vero e proprio evento -definitivo e insieme fondativo- di una nuova epoca, tassello immancabile e imprescindibile di quel diseguale mosaico che è la storia del cinema, pietra miliare “soprattutto per il cambiamento che ha segnato nel modo di fare, di guardare e di considerare il cinema […] una svolta nella storia dello sguardo” (come scrive lo studioso italiano Sandro Bernardi).

Il Dottor Stranamore (1964): satira caustica e geniale sullo spettro della guerra nucleare, uno dei capolavori più ironici di Kubrick.

2001

La pellicola, divisa in tre parti, si apre con una Terra ancestrale e desertica, abitata da animali selvatici e scimmie antropomorfe. Kubrick narra il salto evolutivo verso lo stadio umano, rappresentato dall’apparizione di un enigmatico monolito nero, simbolo della nascita della razionalità in un primate. L’avvento del pensiero si lega all’apparizione della violenza: un osso, usato come arma, lanciato in aria si trasforma nella celebre ellissi che porta a una navicella spaziale. Gli ominidi cedono il posto a uomini ultra-evoluti che esplorano la Luna in cerca di altre forme di vita, ancora legate al monolito nero.

La missione Giove e l’intelligenza artificiale

La seconda parte, ambientata “Diciotto mesi più tardi. Missione Giove”, segue alcuni astronauti a bordo della Discovery, guidata dal computer parlante HAL 9000. Quando HAL scopre il tentativo di disattivazione, elimina uno dopo l’altro gli astronauti, lasciando salvo solo David Bowman, che spegne il computer e prosegue verso Giove.

Giove e oltre l’infinito: il viaggio interiore e la trasformazione

Nella terza parte, “Giove e oltre l’infinito”, Bowman vive un viaggio psichedelico, atterrando su un pianeta che ricorda la Terra, dove assiste al proprio invecchiamento, all’ultima apparizione del monolito e alla propria trasformazione in uno Star Child, figura nuova e ambigua che chiude il film con uno sguardo diretto verso lo spettatore.

Tre viaggi, o forse uno solo ripetuto tre volte: una struttura narrativa triplice, forma di tutte le forme, storia di tutte le storie, che fa del ritorno il motivo ricorrente del racconto. Il titolo “2001” non indica una data reale, ma un numero mitico, simbolo di ciclicità e rigenerazione, richiamando miti come le Mille e una notte o il concetto nietzschiano dell’eterno ritorno.

Simboli, misteri e aperture interpretative

Seguendo Bernardi, “2001” rappresenta un viaggio unico attraverso l’immensità ciclica del creato e la profondità dell’animo umano, ricco di elementi misteriosi ed evocativi: il monolito nero, simbolo psicanalitico dello specchio e dell’identità, lontano dalle banalizzazioni hollywoodiane; HAL 9000, anticipazione inquietante dell’intelligenza artificiale e della rivolta tecnologica; e lo Star Child, che invita a un nuovo sguardo sul cinema e sul mondo.

Stile, innovazione e omaggi meta-cinematografici

Il film è paradigma perfetto di struttura aperta, priva di un senso univoco e aperta a infinite interpretazioni, capace di coinvolgere emotivamente più che razionalmente (Bernardi). Dominato da uno stile innovativo, rifiuta ritmo, azione e causalità classici per privilegiare rigore scientifico, il lento movimento nello spazio, il nero assoluto del cosmo, il silenzio e dialoghi rarefatti. Infine, la pellicola presenta una forte componente meta-cinematografica e citazionista, omaggiando il cinema underground statunitense degli anni ’60, la Nouvelle Vague e il maestro Ejzenstein, di cui Kubrick riprende tecniche come l’inquadratura multipla per creare effetti stranienti, come nel celebre frammento della scimmia che colpisce la carcassa di un facocero.

Kubrick sul set di 2001: Odissea nello spazio, immerso nella sua ossessione per il dettaglio e il realismo scientifico.

Il cult

Solo tre anni dopo, il cineasta statunitense conclude il suo percorso nel “macrocosmo fantascienza” con Arancia meccanica, ennesimo imprescindibile capolavoro tratto dall’omonimo romanzo di Burgess, ambientato in una Londra futuristica e decadente dove tutto è copia di una copia.

La violenza e la riflessione sul libero arbitrio

Alex De Large, insieme ai suoi drughi, pratica gratuiti atti di ultraviolenza sulle note di Beethoven, tra droghe, stupri e aggressioni, finché non finisce in carcere e accetta un lavaggio del cervello che reprime le sue tendenze violente. Oltre alla riflessione esplicita sul libero arbitrio — per cui, come ammette Kubrick, “l’uomo deve poter scegliere tra bene e male, anche se sceglie il male” — il film si distingue per una profonda e all’epoca inusuale riflessione sulla modernità e sul cinema stesso.

Un mondo di simulacri: falso, immagine, realtà

Kubrick crea un mondo distopico che condivide con la contemporaneità e il cinema molteplici implicazioni strutturali. Rifacendosi a Paolo Bertetto, si nota come il regista trasformi l’universo di Alex in un mondo di simulacri, fantasmi e immagini false, rimandando a una società sempre più mediatizzata e tecnologica che ha perso i propri riferimenti, mescolando vero e falso, concreto e astratto, epidermico e virtuale, e soprattutto riflettendo la megalomania falsificante del cinema stesso. Secondo Bertetto, Arancia meccanica rende visibile la natura simulacrale del dispositivo cinematografico, diventando insieme un affresco distopico di un mondo che ha perso la propria naturalità per trasformarsi in pura immagine. Nell’universo creato da Kubrick ogni elemento visivo è falso, segno che rimanda ad altri segni: scenografie ispirate alla pop art e optical art, lingua eteroclita, trucco e costumi artificiali, ambienti sincretici dove l’uomo diventa un miscuglio di plastica e vetroresina (come nel Korova Milk Bar, arredato con manichini di donne nude usati come tavolini).

L’artificialità che riflette la società e il cinema

Bertetto osserva come in Arancia meccanica tutto il visibile sia connotato come falso, in un riferimento diretto all’artificialità, illusività e simulacralità che caratterizza il cinema e la società contemporanea, sciogliendo la dicotomia tra carnale e artificiale.

Arancia meccanica (1971): distopia provocatoria e riflessione sulla violenza e il controllo sociale.

Barry Lyndon: un ritratto storico rigoroso e poetico

Decisamente diversi gli obiettivi di Barry Lyndon, cronaca delle (dis)avventure di un giovane irlandese nel Settecento europeo. Mentre Arancia meccanica è un ritratto del falso, qui Kubrick – come già in 2001 – racconta con rigore quasi filologico una storia di viaggio. Se nel capolavoro del ’68 il realismo riguardava i movimenti nello spazio, in questo affresco storico il regista si impegna a ricreare le atmosfere del Settecento, ispirandosi ai grandi paesaggisti del tempo e usando le innovative lenti Zeiss progettate per la NASA, spesso girando a lume di candela per ricreare le condizioni reali degli interni angusti. Ne nasce un’opera magnifica, esteticamente insuperabile, inizialmente poco compresa ma poi riconosciuta come la rappresentazione più rigorosa del Settecento al cinema. Il ritmo freddo e distante del film richiama l’aristocrazia settecentesca, fatta di formalismo e austerità, rafforzando le violente esplosioni di dolore e sentimento che colorano la vita di Barry.

Barry Lyndon (1975): un capolavoro visivo che fonde cinema e pittura, celebrando la luce naturale e l’arte barocca.

Horror d’autore

Dopo l’affresco storico, Kubrick continua il suo disarmonico itinerario tra i generi e approda all’horror, dando vita a Shining, uno dei suoi film più universalmente amati, racconto della discesa negli abissi della follia omicida di Jack Torrance (uno stratosferico Jack Nicholson), scrittore fallito che, insieme alla propria famiglia, si autoesilia con la mansione di custode in un hotel enorme, popolato da strane presenze, forse frutto della sua immaginazione.

Struttura aperta e senso di claustrofobia

Il lavoro del cineasta stavolta forza a dismisura le paratie stagne del genere fino ad approdare all’ennesima struttura aperta, priva di reali soluzioni.
Tutto il film si carica di un cupo senso di claustrofobia, di doppiezza strutturale, di soffocamento.

Tempo e spazio labirintici

Lo spazio fisico è circoscritto e limitante e il tempo, racchiuso in tale labirinto privo d’uscita, sembra perdere un orientamento logico. Il fluire del racconto è intervallato da cartelli che tentano di fissare le immagini su un punto specifico della catena temporale ma con lo scorrere dei frame le indicazioni si fanno sempre più vaghe. A “Un mese dopo” segue “Martedì”, a “Sabato”, “Lunedì”. Ma di quale settimana? Di quale mese? Il tempo si sfibra, diventa esso stesso labirinto, collassa fino ad esplodere nell’ultima enigmatica immagine che mostra su una parete dell’hotel l’impossibile fotografia di una festa degli anni ’20 che ritrae anche il protagonista.

Anche il labile confine tra realtà e irrealtà si spezza e in questo senso diventano estremamente significative le inquadrature allo specchio, in cui la superficie riflettente occupa totalmente lo schermo per poi svelare -tramite un movimento di macchina- di essere solo una copia del reale. Un meccanismo simbolico che allude all’accesso a una dimensione ulteriore: quella del fantasmatico dominata dagli inquietanti spettri che i personaggi incontrano nelle varie stanze o quella dell’isteria folle in cui Jack lentamente scivola.

Un horror maturo e sensoriale

Nel suo porsi al di là di ogni interpretazione oggettiva, nel suo essere un puro animale filmico grondante di sensazioni, visioni e essenze da cui farsi travolgere, nel suo dichiarare quanto l’impossibilità di (ri)conoscere la verità del reale sia il vero orrore del vivere, Shining si erge come uno degli horror movie (etichetta senza dubbio stretta) più maturi e consapevoli mai realizzati.

Shining (1980): un capolavoro horror che esplora la follia e l’isolamento, tra atmosfere claustrofobiche e suspense intensa.

Full Metal Jacket: follia, psicosi e antimilitarismo

Follia e psicosi, profondamente connesse alla terrificante esperienza di disumanizzazione causata dalla guerra, sono peraltro i temi portanti del successivo Full Metal Jacket, titolo che richiama un particolare tipo di pallottole utilizzate dai fucilieri statunitensi negli addestramenti per il Vietnam. Il film, che riporta Kubrick a quella riflessione antimilitarista già centrale in alcuni dei suoi migliori lavori, si caratterizza per una struttura volutamente anomala, distante dai tre atti canonicamente utilizzati negli script statunitensi e imperniata invece su due blocchi distinti e connessi esclusivamente dalla presenza del soldato Joker. Se la prima sezione, consumata in una caserma d’addestramento in cui giovani di ogni estrazione vengono rapidamente trasformati in assassini legalizzati, muove da un ideale di aggregazione, la seconda, che vede i soldati impegnati al fronte, si configura come la successiva dispersione. Tale struttura fondata sulle opposizioni binarie plasma tutti gli elementi del film, oscillante tra la rappresentazione del fascino esercitato sull’animo umano dalla guerra e dal pericolo e il disprezzo verso le aberrazioni del conflitto, tra l’assuefazione disumanizzante che trasforma gli uomini in macchine e gli strenui tentativi di conservare un’identità che sia propria, tra il gesto suicida dell’ormai squilibrato Palla di Lardo e la strenua tattica difensiva della giovane vietnamita nascosta fra le macerie.

Qui -in un’operazione simile a quella compiuta per altri precedenti capolavori-inoltre Kubrick spoglia il Vietnam della sua configurazione tradizionale, eliminando ad esempio riferimenti a quel selvaggio e infernale campo di battaglia che fu la giungla vietnamita (ravvisabile in precedenti straordinari capolavori come Apocalypse now Il cacciatore), enfatizzando così la portata universale e totalizzante della sua polemica anti-bellica.

Full Metal Jacket (1987): la crudezza e la follia della guerra viste attraverso lo sguardo impietoso di Kubrick.

Capolavoro incompiuto

E infine Eyes wide shut, trasposizione di quel Doppio sogno di Arthur Schnitzler che Kubrick intendeva mettere su celluloide dai tempi di Arancia meccanica. Oggetto impervio e difficoltoso da interpretare, l’ultimo film del maestro americano naturalizzato britannico ripercorre la crisi di una coppia sposata, iniziata dopo un’intima confessione di lei che una notte, dopo una festa, dichiara al marito l’attrazione potente subita nei confronti di un ufficiale anni prima unita a uno sfrenato e inconfessabile desiderio sessuale. L’ammissione della moglie fa crollare le certezze dell’uomo -rispettabile medico- che vaga per una New York notturna, trasformata in un caleidoscopio eterogeneo di tutte le perversioni umane tra puttane, donne sposate, ragazzine ninfomani e ville misteriose fatte di orge e riti massonici.

Il mistero della donna mascherata

Proprio in questo non-luogo morboso e inquietante, l’uomo viene salvato da una donna in maschera della quale il giorno successivo comincia la ricerca, scoprendone la morte. A questo punto il film apre percorsi multipli senza destare nessuna soluzione definitiva. Non bastano le parole sicure di un amico -che identifica la salvatrice defunta in una donna strappata a un’overdose mortale la sera precedente dallo stesso protagonista- a chiarire il mistero.

La poetica del labirinto e il sogno come realtà

Kubrick finge di dare una via di scampo che non esiste e confeziona l’ultima struttura aperta possibile, la definitiva messa in atto di quella poetica del labirinto già paradigmatica di film come 2001 e Shining. Se nel primo il labirinto si configurava come il mistero stesso del creato e nel secondo finiva per coincidere con la vertigine della follia, Eyes wide shut si dà come esplorazione di quel groviglio insondabile che è l’inconscio, viaggio confuso e privo di percorsi preferenziali attraverso l’ossessione umana, ultima e radicale presa di coscienza del fatto che, nel momento in cui “nessun sogno è mai soltanto un sogno”, il campo della speculazione si allarga a dismisura, facendosi esso stesso labirinto immenso, sterminato, senza via d’uscita.

Eyes Wide Shut (1999): l’ultimo sguardo di Kubrick sull’inconscio umano, tra mistero, ossessione e desiderio.

Stanley Kubrick i film del regista di esperienze visive

Stefano Oddi

FILMOGRAFIA

– Paura e desiderio (Fear and Desire), Stanley Kubrick (1953)

– Il bacio dell’assassino (Killer’s Kiss), Stanley Kubrick (1955)

– Rapina a mano armata (The Killing), Stanley Kubrick (1956)

– Orizzonti di gloria (Paths of Glory), Stanley Kubrick (1957)

– Spartacus (id.), Stanley Kubrick (1960)

– Lolita (id.), Stanley Kubrick (1962)

– Il dottor Stranamore, ovvero: come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba (Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb), Stanley Kubrick (1964)

– 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey), Stanley Kubrick (1968)

– Arancia meccanica (A Clockwork Orange), Stanley Kubrick (1971)

– Barry Lyndon (id.), Stanley Kubrick (1975)

– Shining (The Shining), Stanley Kubrick (1980)

– Full Metal Jacket (id.), Stanley Kubrick (1987)

– Eyes Wide Shut (id.), Stanley Kubrick (1999)