Witches di Elizabeth Sankey, disponibile su Mubi, è un documentario necessario. Guarda negli occhi lo spettatore e gli urla in faccia che le streghe esistono e non sono malvagie e lo fa problematizzando il tema della maternità, una fase fondamentale nella vita di molte donne, piena di ombre che vengono ignorate a vantaggio di una narrazione rosea tradizionale.
Tutto ha inizio da una grande fascinazione fanciullesca della regista verso le streghe, viste per la prima volta sullo schermo nel Mago di Oz (1939). Rivela subito, ho sempre voluto essere una strega, una strega buona. Divertita si trasveste, assume la postura di una fattucchiera e ammalia gli spettatori attraverso i suoi cinque incantesimi, i capitoli in cui è diviso il film.
Le streghe e il cinema
Come nel suo lungometraggio di esordio Romantic Comedy, Elizabeth Sankey costruisce il suo racconto, questa volta fortemente autobiografico, riutilizzando clip di film preesistenti. La sua voce narrante ci accompagna in un viaggio nella storia della rappresentazione delle streghe nel cinema. Dai film sui processi di stregoneria come The devils (1971), ai recenti lungometraggi di genere come The Witch (2015) o Suspiria (2018) di Guadagnino. Quest’ultimo particolarmente significativo per la sua rappresentazione delle streghe come una comunità di donne indipendenti.
Suspiria di Luca Guadagnino
La congrega è un concetto centrale che affronta nel secondo capitolo, dove ci sono molte donne riunite insieme, ci sono molte streghe. Al racconto-collage per immagini cinematografiche, che segue fluviale il racconto della sua personale esperienza della depressione post-partum, paragonata a un film horror, si alternano le interviste a dodici altre donne, amiche, streghe come lei che hanno condiviso lo stesso dolore. La sua congrega.
Mubi le uscite di Novembre 2024
Reportage di un dolore collettivo
Così, quello che inizia come un racconto quasi fin troppo didascalico, si trasforma lentamente in qualcosa di più profondo che lega l’immaginario stregato nei film alla malattia psichica chiamata baby blues. Il punto di contatto sono i libri con le trascrizioni delle confessioni di stregoneria del quindicesimo secolo il cui capo di accusa principale era proprio il pericolo che queste donne potessero fare del male al loro bambino.
Anche il montaggio creativo cambia oggetto, passando da Sabrina o Le streghe di Eastwick, a quelle figure femminili sull’orlo della follia viste in film come Unsane (2018), Ragazze interrotte (1999), Possession (1981). Sicuramente il personaggio più vicino al tema affrontato, è quello della minuta Rosemary, nel film di Roman Polanski del 1968, che vaga con il pancione e il suo impeccabile vestito rosa nel traffico di New York con lo sguardo perso nel vuoto.
Witches: L’antro della strega
Il set allestito da Elizabeth Sankey per accogliere le sue streghe è anch’esso un sortilegio. La regista e musicista britannica arreda una scatola bianca per rappresentare la depressione post-partum come una stanza di un neonato abbandonata che somiglia a un antro di una strega, con libri proibiti e piante rampicanti che abbracciano la culla vuota, le pareti. Dallo sfondo la stanza, cuore del film, si intravede soltanto durante le classiche interviste a camera fissa con gli interlocutori che fissano l’obiettivo per poi passare in primo piano quando la sedia davanti la telecamera resta vuota e iniziano a scorrere i titoli di coda.
Come per magia, la stanza si trasforma, riprende vita con la guarigione e il bimbo che sorride alla mamma. Il film è dedicato a Daksha e a sua figlia Freya Emson, vittime di un male che colpisce moltissime donne ma di cui si parla pochissimo ed è anche un’occasione per riscoprire due film importanti che hanno a loro modo affrontato lo stesso tema, Hungry Hurts e Tully, omaggiati più volte da Elizabeth Sankey.