66esimo Festival di Cannes: “La vie d’Adèle – chapitre 1 & 2” di Abdellatif Kechiche (In Concorso)
Con La vie d’Adèle, chapter 1 e 2 (Blue is the warmest colour) Abdellatif Kechiche dà forma all’assoluto di eros e sentimento in un ritratto visivamente ed emotivamente impareggiabile e dirompente .
Chiudo il mio reportage dei 4 giorni a Cannes con la pellicola del Concorso che insieme a La grande Bellezza, è riuscita a toccare corde vitali. La vie d’Adele, chapter 1 e 2 (Blue is the warmest colour), in lizza per la Palma d’Oro, è uno splendido scossone e scuotimento intimo ed emotivo che il talentuoso Abdellatif Kechiche ha regalato alla Croisette. Tratto-ispirato dal graphic novel Blue is the warmest colour, scritto e illustrato da Julie Maroh, La vie Adèle traccia visivamente e narrativamente una figura femminile che simboleggia fortissimamente e vibratamente l’essenza della scoperta e dell’appagamento del proprio desiderio, nella chiave etimologica di riduzione della lontananza, di riduzione del distacco da ciò che dà calore, luce, emozione…
Adèle (un’Adèle Exarchopoulos straordinariamente reale e sopra la media insieme, nell’essere femminile che rende) è un’adolescente inconsapevolmente ‘famelica’, ossia che nutre se stessa in maniera diversa e più alta della normalità di chi la circonda: la bocca, carnosa e piena, mai completamente serrata, ossessivamente scrutata dalla macchina da presa di giorno e nel sonno, è il simbolo di un riempimento, fisico ed emotivo, a cui la giovane donna ambisce pur senza ancora comprenderne il modo e la forma a lei più adatte. ‘Ingurgita’ il cibo con identica tensione e seduzione, e sperimenta con la stessa attitudine la ricerca dell’amore e del piacere. Un giovane studente pare incarnare questo desiderio e sentimento: primi sguardi reciproci di attrazione, prime frequentazioni. Mentre sta per raggiungerlo ad un appuntamento, per strada, Adèle incrocia una visione che la lascia stordita: è un attimo… il blue dei capelli corti, un viso bellissimo… è una donna (l’ipnotica Léa Seydoux), che ne abbraccia un’altra. Lo sguardo di Adèle e del corto taglio blue si posano reciprocamente addosso. Quella sensazione resta dentro Adèle, scaricandosi inconsciamente in un’eccitazione che esplode di notte, in una masturbazione carica di desiderio.
Fa l’amore con lo studente, e si accorge che non c’è pathos, che non è eccitata e appagata come pensava accadesse. Constatazione dolorosa, ferocemente dolorosa. Adèle tronca l’avvio del rapporto, capisce subito che là non troverà ciò che cerca. Viene attraversata da tentazioni lesbiche, che afferra, ma di cui non è per nulla certa, fin quando, in un bar per sole donne dove si è ficcata per curiosità e istinto, ritrova il colore blue ed Emma. E’ un magnetismo immediato tra loro, che esploderà dopo poco in un’attrazione e una complicità assoluta. Amore e desiderio, rivelati da Kechiche in un erotismo diretto e coinvolgente: le scene di sesso a cui assistiamo senza alcuna mediazione sono l’impareggiabile e dirompente rappresentazione di un’unione di corpi e sentimenti. Ciascuna entra dentro l’altra, violentemente ardenti, tenere, e le invidiamo con meravigliosa immedesimazione. Questo è l’amore, questo è il desiderio, la passione, l’eros. Kechiche ci imbarazza pure, in un voyeurismo prolungato, e ci ‘ferisce’, riportandoci ad una realtà (la nostra) mediamente incolore e insapore sotto questa luce, dove si è ‘rassegnati’ a vivere eros e sentimenti per come vengono, ossia in generale fiaccamente e superficialmente.
Adèle attraverserà la normale fisiologia d’amore con Emma, anche i momenti di vuoto e solitudine, dove il desiderio vaga per vie oblique di appagamento, disorientato necessariamente, per comprendere che ciò che si sta vivendo e perdendo è una rarissima esperienza tra due esseri. Grazia concessa a pochi fortunati. Kechiche, innato sensuale e denso da sempre nel suo cinema, segue la giovane Adèle dentro un movimento di macchina nei cui primi piani affonda come dentro un’anima. La sorprendente Adèle Exarchopoulos, in una maturità attoriale precocissima, si affida totalmente al suo regista, lasciandosi guardare e ‘toccare’ (e la splendida Léa con lei) dentro un’intimità totale.
Il resto della storia è l’ordinarietà dell’esistenza a cui anche Adèle dovrà soccombere nella impossibilità di trattenere per sempre quella rivelazione di appagamento e riempimento assoluti. La camera la lascia e ci lascia mentre abbandona il vernissage della sua amata che ha perduto, spenta nella fine di un ‘eterno fluire’, quell’estasi di corpo ed anima che sola può placare la fame di reale pienezza (per chi è della razza dei ‘famelici autentici’, come me).
Maria Cera
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