66esimo Festival di Cannes: “La Jaula de Oro” di Diego Quemada – Diez (Un Certain Regard)
La Juala de Oro, primo lungometraggio di Diego Quemada – Diez, si candida ad una Camera d’Or (premio per l’opera prima) che spero possa portarsi a casa. una storia di formazione tra le più toccanti e crude a cui mi sia stato dato di assistere.
Seconda e ultima mia visione di Un certain regard: la scelta e il caso di incastro delle proiezioni mi hanno permesso di scoprire un autore pienamente maturo, padrone del mezzo visivo e narrativo, dotato di un’estetica senza incertezze, di una poetica parimenti spiazzante per l’alta capacità di approfondire una realtà sociale nella quale è molto semplice cadere in una retorica falsa, incapace di penetrare la verità che rappresenta. LaJaula de Oro, primo lungometraggio di Diego Quemada – Diez, si candida ad una Camera d’Or (premio per l’opera prima) che spero possa portarsi a casa.
Una fotografia ‘brulicante’ ci getta nel reale degradato e normale di una baraccopoli ai margini di una discarica in Guatemala. Poche ed efficaci istantanee ci rendono uno spaccato esistenziale che fa del sopravvivere il vivere. Una ragazza si appresta a dare avvio alla propria metamorfosi: taglio di capelli, fascia compressa ai seni, cappellino in testa. Si maschera da maschio. Raggiunge gli altri due amici che l’aspettano… Sono pronti a lasciare il niente che li contiene, pronti a partire per tentare di vivere veramente. Arrivare in Messico e varcare a tutti i costi il confine, nella ‘terra promessa’ degli Stati Uniti. Juan, ragazzo già segnato da un cinismo e una durezza forzata, patina autoprodottasi per non soccombere nell’inferno dove è nato e cresciuto, è il naturale leader di questo terzetto. La sua meta è impressa in lui in modo indelebile, con una serietà già troppo adulta ma necessaria.
Il viaggio che li aspetta (nel quale ci entriamo tutti), non è un’avventura epica con un bel lieto fine…È incerto, ingiusto, dominato dal caso, controllabile solo in parte…È orrendamente ineluttabile, come la vita. Ai tre poco dopo si aggiunge un altro ‘infante’, un indio del Chiapas, muto nello Spagnolo. L’ingresso nel gruppo non sarà semplice. Juan nutre una gelosia sia fisica che mentale: un estraneo nel proprio sogno non lo vuole. Farà di tutto per espellerlo, ma riceverà una bella lezione da un reale che gli si sovrasterà, destabilizzandolo nelle proprie certezze, sicurezze, riducendogli sempre più il suo isolamento…Troverà un complice ed un amico nell’orrore di una verità in cui gli umani animali hanno perduto l’amore, il rispetto per l’altro…predoni di corpi, di dignità, di libertà…Avidi nel corrompere, violentare, dominare i più deboli in una vera e lampante lotta per non soccombere. In questo bacino di mondo abbandonato a se stesso, che attraversiamo insieme ai nostri piccoli eroi, sopra i vagoni di treni merci ammassati di uomini disperati e sognanti, dentro le baracche, le strade polverose, tra sporcizia, “inerzia-abbandono all’e così sia”, i quattro protagonisti impareranno a dare forma al tuffo nel vuoto che la voglia di cambiamento li ha spinti a fare. Per uno di essi, l’affacciarsi al baratro sarà decisivo dell’abbandono dell’impresa. Non ne ha forza morale e fisica, comprendendo a pelle che la via potrebbe essere anche senza ritorno…
Gli altri proseguiranno e saranno divisi da un’ingiusta e cieca sorte nera. Solo Juan potrà definirsi testimone della beffa della vita. Il suo sguardo teneramente disperato alla neve che scende su di lui, a un passo dal confine di una libertà di possibilità non rese, chiude densamente una storia di formazione tra le più toccanti e crude a cui mi sia stato dato di assistere. Una scrittura dei personaggi e delle evoluzioni psicologiche, emotive e narrative perfetta: nessun tentennamento, nessuna deviazione da una verità palpabile, così naturalmente espressa in una amoralità da legge della giungla, in cui pure appare con forza l’idolo-demone dell’’oltre confine civilizzato e moderno’, creatore di quel depauperamento sociale e territoriale nel quale ha gettato una parte di umanità, unico ‘dio’ che può dare o respingere l’accesso alla fine di una schiavitù.
La macchina da presa parimenti riproduce uno sguardo impassibile su ciò che ci mostra. Ispeziona l’inferno che attraversa con finta asetticità: tutto in realtà è molto caldo e partecipativo. A cominciare dalla fotografia nel brulichio di fondo che permane per tutto il viaggio, dalle pastosità di distanze che segnano anche confini emotivi. Il reale nella sua crudezza, che contiene anche momenti di bellezza di una natura incontaminata, alternati al degrado che si forma dove l’uomo tocca la terra. Il movimento, tra primi piani, estensioni, carrellate, discese a braccia e mano, assorbe con coraggio tutto ciò che attraversa. Con quella serietà impotente e forte di testimonianza, fragile e poetica nell’abbraccio del dolore di un reale più forte di qualunque sogno: emblematica la scena della pulizia dello stoccaggio delle carni macellate ad opera di Juan, piccolo ma già uomo in tuta da lavoro che scopa i resti di grasso e interiori rimasti a terra. Briciole amare di una bruciante sconfitta.
Bravo Diego Quemada- Diez e bravi i suoi interpreti. Un nuovo Brillante Mendoza, accostabile per uguale potenza e poetica visivo- narrativa del disincanto e della realtà, che ci offre.
Maria Cera
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