In un ecosistema audiovisivo votato all’intermedialità e alla transmedialità di pratiche e contenuti il documentario musicale sta ricevendo un suo momento di grazia con uscite a intervalli regolari che spaziano dai tour-diary delle pop diva/o (vedi Taylor Swift: The Eras Tour, Renaissance: A film by Beyoncé o il film di prossima uscita nelle sale italiane Jung Kook: I Am Still) alle incursioni nelle figure che hanno solcato la storia della musica e dei generi (Jimi Hendrix: Hear My Train a Comin, Io, noi e Gaber, DallAmeriCaruso. Il concerto perduto).
In un panorama così fitto che tende ciclicamente a ripetersi Mogwai: If The Stars Had A Sound di Antony Crook si sviluppa come un outsider del genere: creando una visione votata all’ascolto e alla costruzione di un’esperienza musicalmente emotiva il documentario abbandona la ricerca di una spettacolarizzazione della carriera dei Mogwai, gruppo post-rock scozzese e caso sui generis della musica millenials, per un esperienza introspettiva e artisticamente immersiva.
Film in concorso e in anteprima italiana al Lucca Film Festival 2024.

It’s sweet soul music from Scotland
Mogwai nasce come progetto nel 1996, caso unico in un panorama come quello della musica britannica dell’epoca, distante anni luce dalle sonorità introspettive, prevalentemente strumentali, “slow moving” e quiete della band, che condivideva i riflettori degli anni ’90 con le neonate Spice Girls e i prossimi allo scioglimento Take That.
Lontani vent’anni da band come i Joy Division, i The Cure e le sperimentazioni sonore di Brian Eno, Mogwai è un idea contro-corrente e contro-tempo, che insegue musiche in viaggio dal panorama post-punk ’70 britannico ai cori ebraici per lo Yom Kippur.
Raccolto tra un concerto in un mondo post-lockdown e uno nei locali senza finestre di Glasgow all’alba del nuovo millennio Mogwai: If The Stars Had A Sound segue la storia della band scozzese tra classiche interviste frontali ed estesi estratti musicali senza mai cadere alla narrazione indivuduale o al gusto per il gossip. Il vero cuore protagonista del docuementario è sempre e solo la musica. Il suo processo creativo, la sua evoluzione e la sua esecuzione in esperienza emotiva che travolge il documentario stesso, a metà tra visual album e testamento in VHS.
Mogwai: If The Stars Had A Sound raccoglie l’essenza musicale della band lasciando da parte tutto il superfluo, facendo immergere lo spettatore in un’esperienza che, nelle parole del videoartista Douglas Gordon:
porta delle persone dentro la luce per fargli vedere quanto può essere oscura e porta delle persone nell’oscurità così che possano vedere la luce.

Paradigma del documentario retro-romantico
Mogwai: If The Stars Had A Sound si muove esteticamente su due linee visive. Se da un lato sfrutta il lessico tradizionale dell’intervista frontale, dall’altro si immerge nel desiderio di donare un esperienza-concerto allo spettatore, non tanto come visione ravvicinata di uno show ma come evoluzione di un’esperienza: un susseguirsi di effetti misteriosi e psichedelici, specchio della musica e della band che vuole raccontare.
Le interviste frontali vengono accolte dall’immagine e, soprattutto, dal tappeto sonoro, lasciando una buona lezione di come costruire un documentario musicale per, in primo luogo, i fan e la musica, i due direttori principali del racconto.
La narrazione è immersa nel materiale d’archivio anni ’90 e in un’estetica “a tubo catodico” che sa oggi di retrò (seppur vicina) e romantica (seppur estraniante).
E poi spazi vuoti, musiche fantasma e rotazioni concentriche da sinistra a destra, dal basso verso l’alto, dentro una giostra individuale, come a mimare non la musica ma quello che c’è dentro, dietro e intorno ad essa.
Approcciato più come un concerto che come un’opera cinematografica Mogwai forse va visto rispettando questa posizione con la mente aperta al percorso musicale e alle luci paraboliche che ruotano verso di noi, mentre in sottofondo tornano le parole di Gordon:
sto cercando di pensare se ho mai sorriso ascoltato Mogwai. Ma è come mia madre che mi ha sempre chiesto di dipingere raggi di sole, e non l’ho mai fatto.
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